giovedì 31 agosto 2017

Ciò che deve essere fatto - Trama

Paer c'è cascato per l'ennesima volta.
A dispetto di tutti i migliori propositi (nonché sacri giuramenti!) di tenersi fuori dai guai e del suo profondo disprezzo per gli idealizzati eroi senza macchia e senza paura di cui sempre cantano le saghe, è sempre la stessa storia: quando qualche sventura o pericolo minaccia la sotterranea città nanica di Traágrin o anche soltanto qualcuno dei nani che la abitano, alla fine tocca sempre a lui mettersi in gioco e rischiare la vita tra mille spaventi.
Ma si sa, come recita un antico adagio, "ci sono volte che un nano deve fare ciò che deve essere fatto".
E dunque, Paer (proprio per questo soprannominato Difensore), ogni volta che è chiaro che è lui ad avere le migliori probabilità di riuscita o, per lo meno, di riportare a casa la pelle, si fa forza, e va... a dispetto dell'ostacolo che una madre decisa e autoritaria, un padre fanfarone, una nonna apprensiva, o una promessa sposa non troppo ardentemente desiderata possono rappresentare.
Spesso combattuto tra il proprio notevole senso del dovere, un passato con cui finir di fare i conti e le proprie paure (o magari anche solo legittime aspirazioni a una vita meno turbolenta), saprà Paer fermarsi prima di accettare qualche cimento superiore alle proprie capacità?

Per leggere l'inizio:
- Prologo
- Capitolo 1

mercoledì 30 agosto 2017

Ciò che deve essere fatto - Capitolo 1

Sottosuolo nei pressi di Traágrin,
anno 240524 dalla fondazione di Traágrin,
giorno di Liíro, 13 Graákel


Un dito più a sinistra e avrebbe perso l'occhio. Così, invece, il khanjar, il ricurvo e minaccioso coltellaccio del goblin, lo mancò e scivolò a lato, con uno stridio fastidiosissimo, sulla superficie di metallo del carrello retrostante.
"Giuro per la Forgiatrice, questa è l'ultima volta" lottò per non lasciarsi sopraffare dal panico Páer. Per un istante, fu certo che il kriss, pugnale dalla caratteristica lama serpeggiante, con cui l'altro goblin stava per infilzarlo avrebbe colpito al di sotto dello strato di cuoio borchiato dell'armatura e gli avrebbe aperto le carni.
Invece, la botta disperata che il feroce nano aveva fatto partire, il lesto affondo del manico di pieno acciaio della tabar, fu più rapido. Colse il goblin sull'elmo cornuto. Il gracile umanoide emise un acuto verso di dolore, mentre l'elmo ammaccato gli scivolava dalla testa. Barcollò indietro di un passo e crollò stordito.
Quello col khanjar morse a Páer una mano priva di protezione, per ostacolarlo, poi colpì con la lama al collo. Gli attraversò la folta barba riccia, tingendone il biondo scuro di sangue.
I goblin, simili, nell'aspetto a gnomi fangosi, pustolosi e abbruttiti, sono assai meno massicci dei nani, oltre che un poco più bassi, ma ciò che a loro manca in stazza, viene abbondantemente compensato da pura e feroce cattiveria. Una volta che Páer, detto Difensore, aveva aggredito gli ultimi sei goblin, quelli che stavano trainando sulle rotaie del binario morto l'ultimo carretto di minerale aurifero, tre erano caduti, uno dopo l'altro, sotto i colpi della pesante tabar. Ma gli altri tre non si erano lasciati intimidire. Si erano fatti sotto, per portarsi a una distanza alla quale la pesante ascia sarebbe stata pressoché inutile... a differenza delle loro corte armi. Uno non ce l'aveva fatta. Due sì.
Ora, uno di questi era riuscito a colpire.
Ci riprovò, ma Difensore, stringendo i denti per soffocare il dolore, strattonò la mano imprigionata. La liberò. I denti aguzzi del goblin avevano morso a sangue.
Il gomito del nano scattò e spaccò il labbro del pugnace nemico. Gli occhi marroni del nano si socchiusero con odio, scacciando per un momento dolore e paura. Incrociarono per una sola frazione di secondo quelli stretti e omocromi del goblin. Il biondo capo ricciuto del nano era già scattato. Fracassò il naso della feroce creaturina, facendola abbattere a terra.
Finirli. Doveva farlo subito, prima che potessero riprovare ad ammazzarlo. La ferita al collo gli bruciava. Páer a tratti invidiava e a tratti odiava quegli eroi delle storie di Némo Profeta, che affrontavano battaglie su battaglie senza battere ciglio. Difensore, invece, nel corso di ogni scontro, aveva sempre paura. Veniva il momento in cui la concentrazione della lotta o la furia della pugna aiutavano a relegare la paura in un angolo. Ma che brividi, quando una punta passava vicino all'occhio, quando una lama rischiava di recidere un'arteria, quando una botta minacciava di fracassare un osso...
«Páer, ricordati di non fare tardi!» echeggiò improvvisamente, all'orecchio del teso nano, la voce di sua madre.
Il nano perse qualche preziosa frazione di attimo a trasalire, brandendo la propria fida tabar di nuovo a due mani, e a volgersi sbalordito.
«Perché lo sai che domani sera, a cena, festeggiamo il nuovo filone scoperto da tuo padre» proseguiva, spietata e imperterrita, la voce della nana, sempre all'orecchio di Difensore. «E devi avere anche il tempo di lavarti e cambiarti!Non vorrai offendere la tua famiglia piombando trafelato, all'ultimo momento e vestito da straccione?!»
Magia! Quella nana ossessionante di sua madre era ricorsa a un sortilegio di telecomunicazione per ricordargli di prepararsi per la cena! E proprio in quel momento, in cui il collo gli faceva male per un taglio appena rimediato e ci aveva quasi lasciato la pelle! Si trattenne dall'imprecare soltanto perché temeva che l'incantesimo potesse veicolare l'inopportuna risposta. E Nrák, la madre di Páer, davvero, davvero, davvero non era una nana che convenisse offendere.
«Quindi, datti una mossa» proseguì lo stregato messaggio. Ma il nano cessò di prestarvi attenzione: i due goblin si stavano riprendendo. Ciò significava che stavano per riprovare a ucciderlo.
Difensore emise un verso belluino, forse impressionante, ma per il resto inutile, mentre calava la tabar in un forte fendente contro il nemico più vicino, quello a cui aveva rotto il naso. Il goblin riuscì a scansarsi di misura. La pesante lama d'acciaio emise un fracasso assordante, nonché alcune scintille, cozzando sulla pietra. Il goblin colse l'occasione per scagliare il proprio khanjar, da una distanza dalla quale sarebbe stato difficile sbagliare anche per uno gnomo sbronzo.
«E vedi di non farti accoppare!» si concluse nel mentre il magico messaggio di Nrák.
Il khanjar sibilò accanto all'orecchio di Páer. O il goblin aveva una mira peggiore di quella di uno gnomo sbronzo, o il fatto di dover tirare in tutta fretta, col naso rotto e mentre un nano furibondo gli urlava addosso, ben intenzionato a farlo a pezzi, doveva avergli impedito di rendere al meglio.
Difensore gli si avventò contro con una falcata e lo calciò a una gamba. Páer aveva sempre avuto un piede di dimensioni ragguardevoli, per essere un nano; un piede che, calzato in un duro stivale nanico dalla punta accentuata, strappò nuove alte grida di dolore alla vittima.
«Così starai più fermo» bofonchiò Difensore, calando una seconda volta la tabar. Questa volta col riscontro di un disgustoso rumore di carne macellata e di un ultimo grido di dolore.
Inutile dire che l'altro goblin aveva avuto ogni agio di finire di riprendersi, di recuperare il proprio pericoloso kriss dalla lama serpentina e di sfruttare le proprie magiche facoltà per mimetizzarsi.
"Ci mancava anche questa" pensò Páer, volgendo gli occhi ora qua, ora là, sul chi vive. La ferita, che sarebbe probabilmente risultata letale sulla morbida pelle o sul debole corpo di un Superficiale come un umano o uno gnomo, non era affatto grave, per Difensore. Le carni naniche, di proverbiale resistenza, avevano riportato un taglio non troppo profondo. Ma un taglio è sempre un taglio e a Páer dava fastidio. Avrebbe preferito potersi rilassare, potersi bendare, potersi felicitare di esserne uscito vivo ancora una volta, magari riportare a Traágrin il carico che quei maledettissimi goblin avevano rubato e, a scanso di suscitare le ire della propria famiglia, lavarsi, cambiarsi e raggiungerli a cena.
Invece, no. Doveva guardarsi le spalle da un maledetto goblin mimetizzato.
Se i nani, difatti, grazie alla loro parentela con la roccia, sono incredibilmente resistenti, i goblin, affratellati al fango, sanno essere viscidi e furtivi... Non è punto semplice, individuare un goblin ben nascosto.
«Senti, goblin,» tentò la via del dialogo Difensore, parlando nella lingua Snòogl, utilizzata in tutto il vasto impero Ròsk dal medesimo nome «finiamola qui».
«Non mi puoi ammazzare da solo» sperava di non sbagliarsi Páer. Maledetto collo! E maledetti brividi lungo la schiena. In verità, forse, un colpo fortunato...
«E mi sembri un tipo a posto» proseguì il nano. «Ti lascio vivo.» ("e tu farai altrettanto, vero?" pensò Difensore) «Io vado via col mio tesoro... e tu con la tua pellaccia».
Niente. Forse era già andato. O forse era d'accordo e aspettava solo che Páer se ne andasse. Maledetta ferita, che fastidio! Il nano vi passò quasi istintivamente una mano sopra.
Il goblin eruppe alle sue spalle, emergendo da una pozza di fango che avrebbe dovuto essere troppo piccola per celarlo. Ma i goblin sfruttano fino in fondo le pur ridottissime risorse magiche di cui godono. Una mano ancora lorda di acqua e melma afferrò i ricci biondo-scuro di Difensore e l'altra calò il kriss verso il collo.
Non era stato un colpo fortunato. Ferito una seconda volta, ma ancora vivo e vegeto, Páer replicò con una possente gomitata. Allacciò con la propria gamba quella del goblin e lo fece incespicare. Vi si lasciò cadere sopra per non dargli alcuna possibilità di svicolare di nuovo. Voleva schiacciarlo. Ma caddero su uno strato di pantano.
Il goblin cercò di guadagnare lo spazio di affondare il kriss ancora una volta, ma il nano non glielo concesse. Levò alta la destra, in cui ora stringeva una frastagliata pepita d'oro nativo, di dimensioni e peso ragguardevoli.
«Volevi l'oro?» ringhiò Difensore «Eccolo!»
E gli spaccò la tempia con il pesante sasso.
Bene. Finalmente, poteva occuparsi delle proprie ferite. Roba da poco. Ma fastidiosa. Anche se poteva andare ben peggio. Se quel maledetto messaggio magico fosse arrivato prima, tradendolo mentre era impegnato a cercare di sorprendere tutti e sei i goblin...
Fu allora che Páer cominciò a invidiare anche un'altra caratteristica degli eroi delle storie di Némo: non avevano parenti. Quasi tutti orfani. Di altri, semplicemente, non si faceva parola alcuna dei familiari; né genitori, né nonni, cugini, zii...
E Difensore li capiva benissimo! Ma come si poteva andare a cuor leggero a combattere un eventuale potentissimo signore del male, con mamma e papà, dietro, a tirarti per l'armatura per implorarti (o ordinarti) di restare al sicuro? O coi nonni, da un lato magari ancora più preoccupati, e dall'altro magari bisognosi di assistenza da un momento all'altro? O con ogni altro genere di cari inermi, pronti a essere sfruttati come ostaggi dai nemici più spietati?
Per non parlare poi di quando ti chiamavano a cena mentre stavi rischiando di farti uccidere...

Traágrin,
anno 240524 dalla fondazione di Traágrin,
giorno di Sygèro, 14 Graákel


«È tornato il Difensore!» tuonò Gáot, uno dei minatori che erano stati vittime della razzia.
«Per il martello della Forgiatrice, Páer!» esclamò Tjár, un altro dei minatori, strabuzzando i neri occhi e affrettandosi ad accorrere «Ce l'hai fatta!»
«Avevate dubbi?» emerse, sudato (ma almeno non più sanguinante), Páer da dietro i carretti minerari che aveva spinto di nuovo fino a Traágrin.
«Il giorno che io non sarò più capace di occuparmi di un pugno di goblin,» si bullò il nano trionfatore «sarà quello in cui voi non saprete più occuparvi di tre carretti d'oro!»
Con grasse risate e il cuore riscaldato dal ritorno del minerale rubato, Gáot, Tjár e tutti i loro colleghi minatori si affrettarono a circondare il loro "Difensore", a battergli pacche sui fianchi e sulle spalle e a osannarlo.
Il furto in sé non sarebbe bastato a compromettere l'economia della industriosa comunità mineraria; ma ci sono poche cose che i nani amano più delle gemme e dei metalli preziosi! Se gli odiati goblin fossero riusciti a passarla liscia dopo un colpo del genere, lo smacco morale subito da tutta la città sotterranea di Traágrin sarebbe stato gravissimo. Ora, invece, era tutto di nuovo come doveva essere.
Grazie a Difensore Páer.
"Quanto sarebbe tutto dannatamente perfetto, se solo i tagli al collo smettessero di darmi fastidio" pensò privatamente l'idolo locale, mentre la notizia del suo ultimo successo si diffondeva dalla zona delle miniere a quella urbana con la velocità di un incendio in un pagliaio. La fasciatura, improvvisata dal nano con strisce del proprio stesso abito, aveva arrestato del tutto la perdita di sangue (tanto che egli l'aveva tolta giusto poco prima di arrivare), ma avere la carne tagliata non era per nulla tanto confortevole quanto averla integra!
«Páer! Páer!» gridavano le due ali di nani che l'eroe del giorno trovò schierate ai lati della strada ricavata tra le stalagmiti e gli strapiombi della grande caverna.
«Difensore! Difensore!» tuonavano invece altri.
Non ci sono molte cose capaci di indurre un nano a interrompere il proprio lavoro. Che così tanti nani si fossero sentiti spinti ad allontanarsi momentaneamente dalle proprie quotidiane occupazioni per celebrare il suo ritorno, riempì Páer di orgoglio. Forse, dopo tutto, affrontare le avventure non era così male. Lo faceva sentire bene. O, per lo meno, meglio. Il ricordo di un bambino attraversò la sua mente, fuggevole come un fantasma.
Páer si incupì. Per un poco, non sentì più le ovazioni che i concittadini festanti continuavano a tributargli. Poi, gradatamente, il buon umore ritornò. Era già di nuovo capace di sorridere, quando riconobbe suo padre, Nóar, tra la folla, vicino all'ingresso delle mura. I biondi capelli di Nóar erano più chiari di quelli del figlio, nonché ormai qua e là lievemente striati d'argento, ma il nano si ergeva così fiero, da parere imponente quanto i bastioni delle mura esterne, pareti così alte da raggiungere il soffitto dell'ampia caverna e chiudere la città completamente, come si trattasse di un immenso, unico edificio.
«Eccolo!» il nano indicò Páer a due amici, segnandolo a dito «Mio figlio! Nessun altro ci sarebbe riuscito, ma nessun problema, per lui! Ha sbaragliato tutti e venti i razziatori!»
A poco sarebbe servito protestare che i goblin erano stati soltanto dodici. E che non li aveva "sbaragliati", ma seguiti, braccati e eliminati a poco a poco. Rischiando di lasciarci la pelle contro gli ultimi sei. Suo padre, solitamente impassibile e temperato come ogni nano che si rispetti, quando si trattava di lui, si lasciava puntualmente trascinare all'eccesso. Indubbiamente, entro poche ore, i razziatori sarebbero diventati trenta, forse anche quaranta. E avrebbero avuto al loro seguito anche guardie scelte orchesche, o rinnegati Ròsk, o esoteristi Superficiali.
Il padre avrebbe persino cercato di convincere lui che le cose erano andate così.
Dopo aver scambiato pacche esuberanti e fragorosi convenevoli coi compaesani, Difensore superò le porte dell'urbe nanica e, senza bisogno di arrampicarsi per le occasionali scale a chiocciola che conducevano ai livelli di minor prestigio, raggiunse la sontuosa dimora presso la quale ancora viveva con la famiglia. Sua nonna Ljád, che non la finiva mai più, con le preghiere che lui abbandonasse la sua vita da "disgraziato", termine che la poveretta utilizzava per designare gli avventurieri. Sua madre Nrák, che gli voleva altrettanto bene... ma che aveva un poco di fiducia in più nelle sue capacità e tollerava che egli le mettesse a frutto, anche se cercava puntualmente di indurlo a ricavarne maggiori profitti. Suo padre Nóar, che sembrava sinceramente convinto che nulla fosse impossibile per lui.
Peccato, che, ultimamente, tutti loro fossero anche convinti che lui dovesse...
Páer scacciò con stizza il fastidioso pensiero e andò a prepararsi per la cena. Il preciso orologio ad acqua che dominava la parete di fronte all'ingresso principale dell'abitazione lo informava che non aveva tempo da perdere.

Il viso di Nrák, segnato da rughe per l'abitudine a espressioni di freddezza, stizza o disapprovazione, si illuminò del consueto sorriso compiaciuto.
Era entrato Páer.
Il suo Páer, come ricordava sempre a sé stessa, soddisfatta.
Che figlio meraviglioso. Aveva tutto quello che si potesse desiderare in un nano. Era forte. Era bello. Era ricco. Almeno di famiglia.
Non era stato a caso che Nrák aveva scelto il proprio marito, quando era stato il momento. Ella, grazie al proprio vantaggioso matrimonio con Nóar, aveva fondato una famiglia decisamente abbiente. E, assieme al marito, ne aveva amministrato il patrimonio con abilità e spiccato senso degli affari, al punto da far meritare ancora di più alla famiglia il nome di "Tóar Kút", ovvero "pietra dura", letteralmente, ma, più comunemente, "gemma"... e da guadagnare a sé stessa il soprannome di "Cuore d'Oro", per lo speciale posto che oro e ricchezze avevano nel suo cuore.
Crescendo, Páer sarebbe potuto diventare il nano più influente di tutta Traágrin; il signore assoluto della comunità. Sarebbe bastato solo che la finisse di essere Difensore. Che la smettesse con quella sua mania dei favori. Era l'idolo di tutti, nella città sotterranea... ma che cosa ricavava, da ciò? Soltanto di venire chiamato puntualmente a rischiare la vita a ogni minima occasione.
Che bramasse l'avventura, a quell'età, Nrák poteva anche capirlo. Cosa capiva, un nano, ad appena centotré anni? Un nano non ha una vita effimera quanto quella di creature più sventurate, come ad esempio i comuni esseri umani, che maturano (e invecchiano) cinque volte più rapidamente... Che Páer si divertisse pure, dunque. Ma la nana, al suo posto, si sarebbe data assai più da fare, in fase di accordi preliminari e di discussione di ricompensa. Pazienza; col tempo, sarebbe maturato. Ne era certa.
Era suo figlio.
«Ben tornato» lo salutò Cuore d'Oro, con quel controllato calore con cui lo ricompensava quando era contenta di lui. Era tornato. Era ancora intero. Si era lavato e cambiato. Era elegante. E puntuale. E se, per giunta, magari, questa volta...
«Quanto te ne è venuto in tasca?» provò a informarsi la nana, speranzosa.
Páer, nella propria ampia ed elegante cioppa scagliosa in pelle di drago sotterraneo, parve colto per un momento in fallo, mentre prendeva posto davanti a un piatto di succulento stracotto (di drago sotterraneo anche quello), ma seppe subito sfoggiare quel gioviale sorriso davanti al quale nemmeno la madre riusciva a insistere a rimproverarlo a lungo e rispose: «Trenta rote».
Nrák avrebbe voluto sprofondare. Trenta rote. Per aver recuperato un carico d'oro capace di valerne più di duemila. Si appuntò mentalmente di far visita alla stirpe di Juékna ta Kóar (nome che significava "Mani di Metallo"). Avrebbe ripatteggiato lei una ricompensa adeguata per il servigio che il suo Páer aveva appena reso loro.
Rasserenata dalla prospettiva di quanto avrebbe potuto estorcere alla famiglia a cui apparteneva il carico, Cuore d'Oro rispose al sorriso del figlio e replicò, piegando appena il capo dai folti capelli corvini sul quale aveva posto un elegante diadema con un rubino al centro: «Non vale neanche la pena di arrabbiarsi, con una testa di granito come te. Almeno ti sarai divertito. E poi hai portato a casa la pelle».
«Perché? Era pericoloso?!» si allarmò subito Ljád, l'anziana nana dai capelli ormai un poco radi e del tutto bianchi, ghermendo subitaneamente il braccio del nipote, il quale si era appena seduto a tavola, accanto a lei.
«No, nonna» Difensore fissò i propri cheti occhi marroni in quelli omocromi, ma già velati di lacrime e assai preoccupati, dell'anziana interlocutrice. «Mamma diceva per dire. Lo sai che sto sempre attento».
«Ma se stai attento...» ragionò Ljád, già angosciata, avvicinandosi pericolosamente alla soglia di un pianto a dirotto «... vuol dire che c'è pericolo!»
"Sì, certo che c'è pericolo, nonna!" avrebbe voluto gridare Páer "E tutte le volte che parto non sono sicuro né di tornare, né di farlo tutto d'un pezzo. Devo averla ereditata da te, questa paura dannata che mi segue passo passo tutte le volte che rischio la pelle! Ma ci sono volte in cui un nano deve fare quello che deve essere fatto".
Sfogatosi mentalmente nel volgere di pochi istanti, Difensore fu in grado di rispondere, a voce, in maniera assai più pacata: «No, nonna; nessun pericolo, davvero. Chiedi a tuo figlio!» e si volse con un aperto sorriso a Nóar, chiamandolo in causa «Papà, secondo te ho corso qualche rischio?»
«Certo, come no?» sghignazzò il biondo nano «Quello di annoiarti! Che ostacolo potevano mai essere, venti goblin e qualche orco, per un vero nano come te?»
«Dodici, papà» cercò stancamente di correggere l'altro Páer. «Erano soltanto goblin ed erano solo in dod...»
«Comunque,» si intromise Nrák «possiamo stare tutti tranquilli».
Il sorriso scaltro che traspariva dalla compostezza quasi perfetta della madre non piacque per niente a Difensore.
«Ci penserà Láevak,» continuò nel mentre la nana, confermando i peggiori sospetti del figlio «ad aiutare il nostro ragazzo a tenere la testa a posto!»
I volti di tutti i presenti si rischiararono tanto quanto quello di Páer si incupì.
«Io non voglio Láevak» tentò di protestare Difensore.
«Una così brava figliola...» commentò Ljád, con quel tono di gnolosa delusione che Páer odiava.
«Forse» concesse Difensore. «Ma io...»
«Una così bella figliola...» lo interruppe Nóar, strizzandogli l'occhio con espressione di complice lascivia.
«Lo vedo da me» replicò l'altro. «Però...»
«Lei ti ama, Páer!» fece, accorata, Fróak, sua sorella minore, guardandolo con quei suoi occhi blu come lapislazzuli, grandi ed espressivi.
«Non voglio lei!» batté il pugno sul tavolo Páer «Io voglio...»
«Noi abbiamo scelto lei» lo interruppe Nrák con tono fermo. «È ricca. È bella. È assennata. È perfetta per te, figlio mio. Quindi tu domani andrai a chiedere la sua mano a casa Óger to Ljukamáert».
Tutti gli sguardi della famiglia erano fissi su di lui. Avevano deciso. Per chissà quale maledettissimo motivo che sfuggiva alla comprensione del nano, la sua famiglia era tutta conquistata da lei. Quante volte ne avevano discusso? Eppure, niente. Con l'andare del tempo, non avevano fatto altro che rinsaldarsi nella loro convinzione.
Per una frazione di un momento, Difensore fu tentato di comportarsi come un Superficiale. Di ribellarsi alla famiglia. Alle regole. Alle tradizioni.
Ma fu appena un attimo.
Páer non era un Superficiale. Non era umano, o un elfo, o un esponente di una qualunque di quelle altre razze assurde e incostanti che rifuggivano il solido ordine del sottosuolo per condurre esistenze vane tanto quanto gli aperti spazi che vi facevano da sfondo. Egli era un nano e da nano, riconoscendo che la famiglia aveva preso una decisione collegiale e definitiva, cessò ogni protesta.
Chinò il capo e disse solo: «Obbedisco».
Poi, cercando consolazione nel cibo, si sputò sulle mani e se le sfregò l'una con l'altra, nel gesto rituale che ogni nano ben educato compiva prima di cominciare un pasto. E pensare che esistevano razze così mal informate da avanzare dubbi sull'igiene dei nani...
Mentre tutti facevano a gara per congratularsi con Difensore e per ripetergli quanto fosse fortunato, nella mente del nano si fissarono solo le parole della madre, la quale, ammorbidendo lievemente il tono, gli disse: «Credimi, figlio mio, quella è la nana per te. Domani compirai un passo che non avrai mai motivo di rimpiangere».
Ma la lucida nana calcolatrice non sapeva quanto si stava sbagliando, al riguardo.

Ciò che deve essere fatto - Prologo

Traágrin,
anno 240524 dalla fondazione di Traágrin,
giorno di Gaáry, 11 Graákel


Sei gli elmi ai cavalieri di Wrannun,
che li proteggan nella sacra cerca.
Tre martelli a batter forte,
per forgiar le loro lame.
Due i fiumi di Cairunnan,
la fatata terra di salvezza,
che darà i natali alla speranza,
all'unico Cercatore destinato a guidarli
a trovare il sacro talismano di Kaenor.

«No, Némo, davvero no» il giovane nano levò il palmo della sinistra a interrompere le declamazioni dell'amico. «Lo sai che quella dell'Ultimo Cercatore non mi piace».
«Tzk!» esclamò lo Tzáni, lievemente stizzito «Ho capito che non ti piace, Páer. Dovrei avere una testaccia dura come quella di un nano, per lasciarmi sfuggire i tuoi sottili segnali».
E Némo, di duro, dava l'impressione di avere ben poco. Come tutti gli Tzáni, i bizzarri ibridi gnomo-zanzara che era possibile trovare sul continente di Smóold, l'essere aveva l'aspetto di un umanoide di altezza ben inferiore al metro, basso anche rispetto a un nano e certo assai meno robusto, con accenni di morbide rotondità, al limite, in luogo di soda muscolatura scolpita.
«Tutte le volte che mi azzardo a incominciare questa storia,» enumerò sulle dita lo Tzáni «insisti sempre a interrompermi. Dopo averlo fatto, non contento, tipicamente spendi ore a criticare questo o quell'aspetto della leggenda. Almeno mi avessi dato la soddisfazione di ascoltarla tutta fino alla fine, una sola volta! Per giunta, nemmeno riesci a ricordare che il capolavoro del bardo Jerére si chiama "Unico Cercatore" e non "Ultimo Cercatore"...»
Gli Tzáni sapevano articolare le parole con una facilità che non mancava mai di sorprendere chi li vedeva per la prima volta, considerata la loro faccia da zanzara, con tanto di mostruosa proboscide potenzialmente adatta a suggere sangue... ma Páer conosceva Némo ormai da più di vent'anni, quindi non perse tempo a meravigliarsi e si limitò a sbuffare: «Unico, ultimo... che differenza fa? Sempre la stessa storia. Il Male che vuole il mondo... L'oggetto per fermarlo... La ricerca... Il viaggio...»
«Se, successivamente, un mucchio di altri cantori di mezza tacca hanno replicato alla nausea lo schema dell'immortale Jerére, ciò non è certo ascrivibile a sua colpa!» difendeva il proprio idolo Némo. Da Tzáni appassionato di leggende qual era, non poteva che ammirare quel grande bardo della propria stessa gente e davvero non concepiva l'idea che qualcuno potesse non afferrarne la grandezza.
«Anzi, questo casomai testimonia...» avrebbe inteso proseguire lo Tzáni.
«... Testimonia che un tempo si accontentavano facilmente!» tagliò corto Páer, aggrottando in segno disapprovazione le sopracciglia bionde, folte quanto le chiome che, del medesimo colore, gli cadevano appena sotto le spalle «Sai come la penso. Già la trovata degli gnomi dalle gote violacee è una cazzata».
"Come volevasi dimostrare..." pensò lo Tzáni, alzando gli occhi alla volta della propria abitazione, affrescata con scene di misteriosi vaticini e incorniciata da rune dal significato occulto "Ecco che comincia la fase due: la denigrazione gratuita".
Era tentato di involarsi sulle proprie fragili alette da zanzara e uscire dalla vicina finestra, rappresentata da poco più che un ovale scavato nella parete. Le ali sarebbero state in grado di reggere il suo peso per un breve tratto, anche se nessuno Tzáni era in grado di sfruttarle abbastanza a lungo da farne il proprio strumento di locomozione primario.
Páer, il quale, evidentemente, non era minimamente sfiorato dal sospetto che i nani, nel ribadire a ogni occasione le proprie convinzioni, potessero rendersi incredibilmente noiosi, proseguì imperterrito: «Di cosa soffrivano, questi gnomi? Di ecchimosi permanenti alle guance? Sarebbe per questo che nella storia ce le hanno tutti violacee? E poi, che termine, per indicare quei poveretti, discriminandoli per la loro statura: "i dimezzati"... Già sarebbe brutto essere un Superficiale,» (con tale nome i nani designavano, con sufficienza o disprezzo, gli umani o, più in generale, gli abitanti della superficie del pianeta) «figurarsi esserne mezzo!»
Némo tentò di riprendere la parola, ma il nano, il quale già lo dominava fisicamente dall'alto del proprio metro abbondante di statura, lo sopraffece anche verbalmente, proseguendo: «Ma quella storia di come il Signore del Dolore frega i regnanti di tutte le razze, poi! Va bene gli elfi; magari loro, Superficiali sventati, potrebbero anche accettare doni fatati da un tizio che è il Male in persona senza farsi troppe domande. Va bene gli umani, Superficiali stupidi. Ma i nani! Nessun nano sarebbe mai così cretino! Nessuno!»
«Neanche se i doni fossero minerali molto preziosi, magari capaci di produrre oggetti di fattura perfetta e suscettibili d'esser potentemente incantati?» si levò infine un poco da terra con le alette lo Tzáni, per fissare i propri occhi sfaccettati nelle iridi marroni dell'amico e provocarlo «Nemmeno in tale caso un nano si lascerebbe vincere dall'avidità e dalla cupidigia
«Un nano tiene presente il valore delle cose,» tenne a precisare Páer, di fronte alla totalmente esagerata critica che le altre razze così spesso muovevano alla sua «ma non si lascia abbindolare come un cretino!»
«In effetti,» finse di rassegnarsi l'altro, con un teatrale sospiro «dei veri nani si sarebbero forse limitati a caricare l'Oscuro Sire con le loro tabar, intenzionati a rapinarlo».
«Némo, Némo...» toccò ora al nano, sospirare «Non hai paura che un giorno io mi stufi delle tue insinuazioni e carichi te con la mia tabar?»
La prospettiva di un marziale nano lanciato alla carica con una tabar, un'ascia da guerra pesante, fatta interamente d'acciaio, in effetti non sarebbe stata piacevole per nessuno, forse nemmeno per un drago sotterraneo, ma lo Tzáni si limitò a sorridere divertito: «Dimentichi che so prevedere il futuro?» e gli batté una pacca amichevole sul fianco «So benissimo che non lo farai».
Prevedere il futuro. Certo, come no? Páer era sempre scettico, a mente fredda, quando udiva Némo proferire tale vanto. Eppure, nei momenti di bisogno, molti dei nani della sotterranea comunità di Traágrin andavano a chiedergli consiglio... E, a quanto pareva, nella sua patria, nelle lontane terre dell'impero Tzáni di Tzáss Tzákk, al nord, Némo era considerato un veggente a tutti gli effetti. Per questo, ormai, lo soprannominavano tutti "Profeta".
«Ma se sei un profeta,» lo accusò il nano «allora sapevi che non mi sarebbe piaciuta la tua storia!»
«Per sapere quello non ci vuole un profeta;» fece spallucce Némo «non te ne piace nessuna! Quando ti ho raccontato quella della fanciulla benedetta predestinata a sconfiggere il principe dei demoni di cui non si poteva nemmeno pronunciare il nome...»
«Lo credo bene, che non si può pronunciare!» barrì Páer «Nemmeno io terrei molto a far sapere in giro chi sono, se mi fossi comportato da cretino come lui! Ma come?! Ha lì fra le mani la neonata che dovrebbe, un giorno, sconfiggerlo. Potrebbe benissimo prenderla per i piedi e sfracellarle la testa contro il muro più vicino. Chiaro? Splat! E più niente minaccia! Ma no! Lui deve fare le cose in grande. Deve provare a ucciderla con una empia maledizione. E anche se tu mi racconti che è il principe dei demoni, temuto in tutti gli inferi, uno spaccaculi di prima forza, ecco che il suo grande sortilegio, sulla lattante indifesa, riesce soltanto a farle avvizzire la pelle del collo, mentre lui è riscaraventato agli inferi gemendo di dolore! Mi chiedo come pretendi che io possa bermi una stronzata simile...»
«E inutile ricordare quanto ti sia piaciuta quella del prode cavaliere e della draghessa...» sospirò Némo.
«Quella storia scema in cui i draghi sono gli animali da soma volanti di cavalieri Superficiali?» qui era quasi più incredulo che indignato il nano «Ma dico, Némo, ma da dove le tiri fuori certe idee? Hai mai provato anche solo a avvicinare un drago? Non dico cavalcarlo; non dico nemmeno parlargli; ti ci sei almeno, una volta, avvicinato? Ovviamente no, visto che sei in giro a raccontare simili cazzate, anziché nello stomaco di uno di loro. Poche creature sono più ribelli, indipendenti e pericolose di un drago. Se poi ci aggiungi che il cavaliere prima diventa in un attimo un maestro di forgia, in modo da potersi creare da solo la propria tulwar, poi diventa un mago in quattro e quattr'otto, così già che c'è riesce anche a incantare potentemente la propria arma, poi...»
«Tzk!» volle tentare di ribattere lo Tzáni «Magari era più intelligente di te!»
«Némo,» fece Páer, questa volta col tono paziente con cui avrebbe cercato di far comprendere un'ovvietà a un bambino «vuoi provare, tu, una volta, a venire a lavorare alla forgia? Vuoi vedere se davvero ti basta un primo tentativo, per diventare abbastanza esperto da avere non dico la certezza di creare un'arma decente, ma per lo meno una possibilità di arrivare alla fine della sessione di lavoro senza rovinare minerali, materiali, attrezzi... o peggio te stesso?»
«E sarebbe per questo che sei venuto qui?» tentò di cambiare discorso Profeta «Per invitarmi a una lezione di forgia?»
Il nano si riassestò impercettibilmente sulla sedia, parzialmente a disagio, allungando distrattamente la mano sul tavolo di casa dell'amico a prelevare un'albicocca candita. Regnava la tenebra più fitta, lì, nel sottosuolo, nella immensa grotta in cui era stata edificata l'urbe nanica di Traágrin. Ma ciò non disturbava minimamente né i nani né lo Tzáni che aveva preso dimora presso di loro: entrambe le razze erano perfettamente in grado di vedere al buio. Ciò che disturbava Páer era ammettere che, nonostante dubitasse fortemente delle facoltà di Némo, quando non aveva bisogno di ricorrervi, ora era venuto a chiedergli consiglio.
«Va bene,» concesse lo Tzáni «non rispondermi. Dopo tutto, che veggente sarei, se non sapessi nemmeno che sei qui per chiedermi come andrà a finire se ti imbarcherai nell'ennesima impresa da scavezzacollo?»
«Non ci voleva molto a capirlo...» bofonchiò il nano, comicamente combattuto tra scetticismo e credulità «Quando ho bisogno di te, è sempre per questo».
«Davvero non credi alle mie facoltà?» sorrise Profeta «E allora perché continui a venire?»
«Perché mi dici sempre che riporterò a casa la pelle» rispose Páer, diretto.
"E che cosa altro dovrei dirti, testone di un nano?" pensò Némo, nel segreto della propria mente "Anzitutto, è l'unica profezia che tu, come cliente, non potresti mai tornare indietro a smentire... e poi ci tengo anche a darti un po' di fiducia. Meglio quella che la verità, ovvero che ogni volta rischi di fare una brutta fine. E so che lo sai anche tu. Ma sei un testone di nano e, a dispetto di tutte le volte che giuri per la Forgiatrice, quell'assurda dea-artigiana in cui credete voi altri, a ogni nuova occasione ti lasci fregare. Sempre tu, quello che si imbarca in qualche impresa stupida o pericolosa al servizio della comunità. E tutto ciò che fino a ora questa tua abitudine ti ha fruttato, è stato solo il soprannome di Difensore. Tzk! Páer, Páer, amico mio... Speriamo bene anche questa volta..."


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Trame d'incanto - Capitolo 1

Passo di Gràmmahn
anno 314159 dalla fondazione di Hòvval,
giorno di Chymmér, 25 Sythebòt



Il gelo della notte non si era mitigato affatto. Il mattino era giunto senza sole, velato dalle spesse coltri di foschia le quali giustificavano ampiamente il nome di quelle aspre e selvagge montagne: i Monti delle Nebbie.
«Presto l'occhio di Etheèlvufurzuri si poserà su queste terre» bofonchiò il ragazzino vestito di pelli sbrindellate, alzandosi di umore cupo dal giaciglio improvvisato vicino al fuoco di bivacco e stirando i possenti muscoli ben disegnati da Alhaturkh, da barbaro dei Monti delle Nebbie.
Era una facile previsione: già da quattro giorni il solstizio aveva segnato l'inizio dell'inverno, la stagione in cui l'astioso dio del gelo del pantheon Alhaturkh fissava il mondo col proprio malevolo sguardo portatore di disagi, tribolazioni e sventure... e minacciando la propria terribile vendetta finale, la frigida e terribile apocalisse con cui avrebbe un giorno reclamato il reame dei mortali.
«Dici bene, Hàrikhot» ammise l'elfo, Xathàmklemhinn, esaminando brevemente il cielo coi propri acuti occhi verdi, già pronti e vigili appena compiuto il passaggio dal sonno alla veglia, e lanciandosi un veloce incantesimo per scacciare il freddo accumulato nel corso della notte; «siamo stati fortunati a non aver dovuto fronteggiare la piena forza delle nevicate che certo, entro pochi giorni, si scateneranno».
I Monti delle Nebbie non erano terre che viziassero i propri figli. E Hàrikhot ne era la prova: il ragazzino era un esponente degli Alhaturkh, i barbari duri quanto retrogradi che appartenevano a quella terra da generazioni; era alto, robusto, le lunghe chiome negre e disordinate gli conferivano un aspetto ferale e la cupa luce in quegli occhi marroni non prometteva alcuna tolleranza agli ostacoli, così come ai nemici alcuna pietà. Risultava più prestante (e minaccioso) di Xathàmklemhinn, sebbene l'elfo avesse già fatto il proprio ingresso nell'età adulta... e vissuto ben più a lungo: gli anni, per gli elfi, sembravano trascorrere ad un ritmo pari soltanto a una frazione di quanto non accadesse per gli umani! Xathàmklemhinn aveva già raggiunto i duecento anni d'età, pur dimostrandone fisicamente e psichicamente appena un decimo. E se si badava alla spruzzata di efelidi ai lati del naso, forse gli se ne potevano attribuire anche un poco meno.
«E allora, non prendiamola a calci, questa fortuna» fu l'esortazione di Gùrp, il nano, di altezza ben inferiore a quella dell'elfo, ma robusto, massiccio... e, come in fondo egli stesso (pur senza ammetterlo) sapeva, grasso. «Sbrighiamoci a raggiungere questo covo di Superficiali dove avete scelto di andare!»
I capelli non erano mai stati il punto di forza di Gùrp... ma la mattina presto, reduci da uno svogliato risveglio, le arruffate chiome nere del nano, ridotte a un'accozzaglia di ciuffi in rivolta l'uno contro l'altro, davano un'impressione di trasandata sciattezza che né la folta barba incolta né la sporcizia profusa sul corpo e sugli abiti dell'umanoide facevano molto per smentire.
Ben diverso effetto sortivano le castane chiome di Xathàmklemhinn, le quali ricadevano in lisce cascate composte... talvolta, a onor del vero, rese più lucenti, o pulite, o ordinate da qualche semplice sortilegio. Mentre si avvicinava a Nhèthyrhann, l'affascinante ex-paladina che si era unita per ultima al gruppo, l'elfo si volse un attimo al nano: «Come ho già avuto modo di farti notare, animale, nessuno di noi intende opporsi ai tuoi primordiali istinti... Se il pensiero di venire con noi nella città di Hòvval ti angustia, torna, ti prego, torna sui tuoi passi e dedicati di nuovo alla semplice vita di profondi scavi o violenti saccheggi che tanto più pare confacente alla tua natura...»
«Ti diverti a punzecchiarmi?» gli occhi nocciola del nano si strinsero minacciosi, mentre le tozze ma forti mani serravano il manico del suo inseparabile piccone... attrezzo che i nani addestrati (come Gùrp) sapevano egregiamente utilizzare anche come arma. Era vero che al nano non andava per niente, di accompagnarli a Hòvval, una città di quelle assurde, bizzarre e imprevedibili creature che sceglievano di vivere sulla caotica superficie del pianeta, anziché nel chiuso e ordinato sottosuolo. Se per quello, al nano non era piaciuta gran che nemmeno l'idea di aggregarsi allo sparuto drappello... il quale pur sempre da Superficiali era costituito! Ma per l'una decisione come per l'altra, aveva avuto le proprie ottime ragioni. E non era disposto a metterle in discussione.
«Ma no, Gùrp, dai! Xathàmklemhinn non diceva sul serio!» si intromise Nhèthyrhann, la donna dall'atletico fisico, agile e forte a un tempo, il quale parlava di un passato di lotte e d'avventura «Ti siamo tutti grati per averci guidati attraverso le viscere della terra e lo sai!»
Dal fondo degli occhi blu dall'aria vagamente smarrita, affiorava una sincerità difficile da non notare... e ancora più difficile da mettere in dubbio.
Hàrikhot si allontanò un poco tra i bassi pini piegati dalle continue intemperanze di un vento, come quello del passo di Gràmmahn, viziato dall'assenza di ostacoli ai propri capricci. La mattina, appena svegli, era un buon momento per espletare alcune prosaiche ma essenziali funzioni corporali. Gùrp, parzialmente rabbonito dal discorso della Superficiale, del quale, grazie alla propria sempre migliore conoscenza della lingua Alhaturkh, aveva compreso la maggior parte, si affiancò al ragazzino, condividendone gli intenti.
Un poco di nevischio cominciò a mischiarsi alle raffiche.
L'ultimo membro del curiosamente assortito drappello, Fgèhrhodd, sedeva paziente, sullo stesso macigno dall'alto del quale aveva vegliato tutta notte sul riposo dei compagni. Solitamente si faceva carico lui di quel compito. E non chiudeva occhio tutta notte. Spesso nell'ombra, lontano dal fuoco. Ma il freddo e la stanchezza, così come la fame, non lo toccavano. Non più. Era da tanto, tantissimo tempo, che Fgèhrhodd, una volta arcimago di Hòvval, era divenuto un non-morto. Tanti, dei potenti, a Hòvval o in una qualunque delle altre città-stato delle Piane delle Stelle, si sottoponevano a tale trasformazione. Ma quasi nessuno, a differenza di Fgèhrhodd, sopravviveva per il lunghissimo periodo al termine del quale il tempo, lavoratore dall'assiduità senza eguali, riusciva infine a piegare anche le arcane forze della magia e riduceva i non-morti a meri scheletri animati, privi di particolare pericolosità e potere.
«Hai trovato la risposta?» risuonò una voce telepatica nella mente del non-morto. Una voce che egli ben conosceva. La voce di colei che quasi nessuno considerava un vero e proprio elemento del gruppo. Ma che forse lo era più a buon diritto di tutti, avendolo fondato. La voce di Zàxeras. La spada che Hàrikhot portava sempre al fianco. Una spada molto speciale.
Una dea.
La morte.
La causa di tutti i loro ultimi guai.
«Sì» sorrise interiormente Fgèhrhodd, sereno dopo le private rievocazioni della notte appena trascorsa. Lo scheletro animato aveva votato intere esistenze a sfuggire la morte, sacrificando tutto a quello scopo. Poi, quando l'aveva incontrata fisicamente, in quella forma di spada in cui macchinazioni tra dei e demoni l'avevano costretta, ne era stato attratto in maniera irresistibile.
Adesso, l'amava.
«Solo un attimo» mormorò Xathàmklemhinn a Nhèthyrhann, vedendola massaggiarsi vigorosamente con le mani per riattivare la circolazione; l'elfo ricorse di nuovo alla propria magia, mettendosi in comunione, con pochi e aggraziati gesti, con lo Fphé, l'armoniosa totalità del creato. Ogni elfo, a mezzo di tale istintiva comunione, poteva richiamare il potere della magia, seppure per creare soltanto effetti relativamente semplici.
«Grazie!» sorrise di aperta gratitudine la guerriera, schiudendo le labbra piene a mostrare la chiostra di bei denti bianchi. Xathàmklemhinn aveva invocato su di lei il potere del latitante sole, donandole un tepore il quale, a forza di soli massaggi, ella avrebbe certo stentato assai a guadagnare.
«Dovresti farlo anche per gli altri» lo invitò la donna dalle ricce chiome, bionde e chiare fino a sfumare nell'argento, preoccupandosi anche dei restanti membri del gruppo. Nhèthyrhann si era ritrovata ad unirsi a loro per salvarli. Ma, con quel pretesto, aveva avuto occasione di salvare anche sé stessa.
Salvarsi dal proprio nemico peggiore.
Ovvero sé stessa.
«Sono animali avvezzi a queste zone e a questi climi» minimizzò Xathàmklemhinn, scuotendo la coperta su cui aveva dormito e ripiegandola per riporla nel proprio zaino. Non parlava con intenzione di offendere. Gli elfi consideravano effettivamente quasi tutti i non-elfi come animali... e, a onor del vero, mostravano anche una sincera benevolenza, verso le specie animali che non risultavano pericolose o violente.
«No, dai Xathàmklemhinn, non chiamarli così» si sentì offesa Nhèthyrhann. «Sono persone, come te e come me».
Un banco di nebbia più bianca e fitta cominciava a levarsi da un canalone non distante. Hàrikhot ritornò verso il misero accampamento, volgendosi per un momento indietro: «Dai Gùrp! Muoviamoci! In capo a poche ore, arriveremo in città!»
«A questo proposito, Hàrikhot,» scese per riunirsi agli altri Fgèhrhodd «durante la marcia dovrei spiegare a te e ai nostri compagni alcune cose. Sai, Hòvval dalle Bianche Mura è un ambiente piuttosto diverso dalle selvagge cime dei Monti delle Nebbie...»

Il sentiero che, attraverso il passo di Gràmmahn, scendeva a Hòvval non era dei più battuti: quasi nessun selvaggio abitante dei Monti delle Nebbie scendeva mai verso la città e, analogamente, quasi nessun civile cittadino di Hòvval aveva motivo di arrancare verso quelle terre inospitali. Come conseguenza, il sentiero era in pessime condizioni, parzialmente franato in molti tratti, reso insidioso da angusti passaggi, con roccia da una parte e baratri dall'altra, e dalle raffiche dell'incipiente bufera.
«Come la nostra civilizzata Nhèthyrhann potrà confermarvi,» cercò di farsi udire Fgèhrhodd, parlando preferibilmente quando l'ululato del vento era più basso «in Hòvval, come in tutte le Piane delle Stelle, i non-morti di più infimo rango... come zombi e scheletri animati... sono considerati pericolosi, se non hanno padrone».
«"Padrone"?» distillò stupore e scandalo in un'unica parola Xathàmklemhinn.
«Sì, "padrone"» confermò il non-morto. «Qualcuno che li tenga sotto il proprio completo controllo. Che dica sempre loro cosa fare... e senza il quale loro se ne stiano passivi o immobili».
«Ma è orribile!» fece l'elfo, figlio di una cultura in cui l'individuo spontaneamente aderiva ai saggi consigli degli anziani, piuttosto che farsi comandare a bacchetta da elementi a cui riconoscere un'arbitraria posizione di predominio «Ma come...»
«Non farla tanto lunga!» gli sbuffò contro Gùrp, raschiandosi la gola e sputando, ben più avvezzo, da buon nano, alle precise e ordinate gerarchie «Hanno bisogno di un responsabile che garantisca per loro! È così difficile da capire!?» poi si volse a Fgèhrhodd «A chi pensavi, come padrone? La più credibile sarebbe la pecorella...» e indicò dietro di sé, col pollice, Nhèthyrhann, la quale trasalì sbiancando.
«Mi chiedo come tu possa sentirti autorizzato a mancare di rispetto alla nostra amica in questo modo» replicò un composto ma tagliente Xathàmklemhinn. «Non mi pare che nessuno, tra noi, si riferisca a te chiamandoti, ad esempio, "grasso vermiciattolo sottosviluppato"...»
«Queste parole te le rimangerai assieme ai tuoi denti davanti!» ringhiò Gùrp, voltandosi rapidamente... e rischiando di perdere l'equilibrio, quando mise un piede troppo vicino a una zona di terra friabile a margine del sentiero. Xathàmklemhinn tese prontamente la mano e aiutò il nano a trarsi d'impaccio.
«Dai, su, non litighiamo tra di noi!» aveva nel mentre spalancato i preoccupati occhi blu Nhèthyrhann «Non mi vergogno di ciò che sono, Xathàmklemhinn... Non più, ora che tu e tutti gli altri mi state dando la possibilità di provare a cambiare. Gùrp non mi ha offesa. Ma» e si rivolse a Fgèhrhodd «avere uno scheletro animato al mio servizio... Non so... Non mi sembra...»
Era ovvio. Nhèthyrhann era stata una paladina dell'ordine dello Scudo Onnipresente. Aveva sicuramente cacciato e sterminato zombi e scheletri per anni. Ritrovarsi improvvisamente "padrona" (seppure fittizia) di uno di questi, era certo un'idea che doveva scombinarla almeno un poco!
«Io pensavo a Hàrikhot» chiarì comunque subito Fgèhrhodd.
«Ma è uno sbarbatello!» esclamò automaticamente Gùrp, servendosi, senza pensare, di quel termine che per i nani, con il loro culto della folta barba, equivaleva sostanzialmente a "lattante".
«Uno "sbarbatello" che ti da dei punti, negli allenamenti con le armi!» ribatté pronto Hàrikhot, per nulla disposto a lasciarsi sminuire.
"Per forza!" pensava il nano "Tu usi quella..." e si perse per qualche attimo a contemplare la meravigliosa spada. Meravigliosa non per fronzoli e ornamenti (dei quali, difatti, era priva), quanto per bilanciamento, flessibilità, resistenza, filo... e potere. Gùrp aveva più volte immaginato che cosa avrebbe fatto, una volta che fosse riuscito ad impossessarsi di quell'arma da re, che aveva rapito il suo cuore di nano come soltanto un manufatto eccezionale avrebbe saputo fare.
«Sì,» spiegò Fgèhrhodd «Hàrikhot è giovane; ma, col suo fisico di possente barbaro virgulto, tra i cittadini sembrerà quasi più uomo che ragazzo. E, proprio in quanto barbaro... quindi ritenuto dai più, per ignoranza, capace di qualsiasi cosa... non sarà affatto incredibile, nel ruolo di padrone di un non-morto. Lo penseranno un selvaggio negromante in erba che viene ad affinare le proprie capacità».
«Spesso, però,» osservò Hàrikhot, individuando un percorso sicuro tra fango e rocce viscide «io ho bisogno dei tuoi consigli...»
«È in pubblico,» sospirò lo scheletro animato, badando a posare i piedi negli stessi punti scelti dal giovane Alhaturkh «che dovremo recitare. O davanti alle autorità. O alla gente che conta. In privato o quando non daremo nell'occhio potremo comportarci normalmente».
«"Gente che conta"...» ripeté Hàrikhot «Intendi dire il capo della città?»
«Come già avevo cominciato ad accennarti, Hàrikhot,» spiegò pazientemente lo scheletro animato «una città delle Piane delle Stelle, come Hòvval dalle Bianche Mura, è ben diversa da una tribù Alhaturkh dei Monti delle Nebbie... A Hòvval il numero degli abitanti è pari a dieci volte dieci quello dei membri di una delle tue tribù. Non c'è un solo capo, perché nessuno è abbastanza potente. Ci sono tanti capi, che insieme comandano; insieme costituiscono il consiglio della città. E anche tra quelli che non fanno parte del consiglio... ci sono delle differenze. Non sono tutti uguali. C'è chi è più potente e chi meno. Ci sono alcuni che, pur non essendo capi, sono comunque "più capi" degli altri... Possono comandare quelli meno importanti di loro... Capisci?»
«Forse» pareva perplesso Hàrikhot. «Noi come sapremo quanto siamo importanti, una volta là?»
«Considerando che, inizialmente, non conosceremo nessuno di importante, che proveniamo dalle terre selvagge dei Monti delle Nebbie e che non avremo un solo ducato in tasca,» enumerò il non-morto «non ho difficoltà a risponderti che non varremo nulla».

«Venite, fermiamoci un momento qui» invitò i compagni Fgèhrhodd, con un gesto dell'ossuta mano, addentrandosi in una sorta di nicchia laterale che garantiva una qualche forma di riparo dagli elementi.
«Perché?» domandò Hàrikhot, stringato e diretto come suo solito, mentre seguiva il non-morto.
«Perché prima di avvicinarci ulteriormente alla città,» spiegò lo scheletro animato «è bene che ultimiamo i preparativi».
«In che senso?» non comprese il ragazzino Alhaturkh, mentre i membri del resto del gruppo si stipavano a propria volta nel ristretto riparo «Non credevo ci sarebbe stato da combattere...»
«Ci sarà da non combattere» spiegò pazientemente Fgèhrhodd. «Per conseguire tal nobile fine, dovremo parlare. E, per il momento, gli unici che parlano il linguaggio delle Piane delle Stelle, siamo io e Nhèthyrhann, che ci siamo nati, e Xathàmklemhinn, per la sua peculiare natura magica. Fino ad ora, il linguaggio di cui tutti abbiamo almeno parziale conoscenza è l'Alhaturkh, ma nessuno lo comprenderà a Hòvval. Bisogna che anche tu e Gùrp diventiate capaci di farvi intendere senza difficoltà».
«Facile» borbottò Gùrp. «Ci fai un corso accelerato qui?»
«Non io,» replicò lo scheletro animato «bensì Hàrikhot. Hàrikhot, Xathàmklemhinn, ascoltatemi. L'unico modo di risolvere rapidamente la questione, è il ricorso alla magia. Xathàmklemhinn,» si rivolse all'elfo il non-morto «tu una volta sei stato in grado di restituire la voce a me. Devi guidare Hàrikhot a fare qualcosa di simile. Lui e Gùrp devono diventare capaci di parlare il linguaggio delle Piane delle Stelle. Puoi farlo, in qualche modo?»
«Fgèhrhodd,» spalancò gli occhi l'elfo «questa volta mi sopravvaluti! Ti ci vorrebbe un vero mago elfo, per un compito del genere! E Hàrikhot non avrebbe mai il potere e il controllo di...»
«Tu trova il modo» tagliò corto Fgèhrhodd. «Quali forze scatenare. Quali spiriti chiamare. Non so, tu conosci meglio di me la magia elfica. A Hàrikhot, il controllo lo forniremo noi, con la nostra guida... e il potere lo fornirà Zàxeras».
Xathàmklemhinn sbiancò lievemente, al pensiero di operare attività magiche che coinvolgessero il potere di quella terribile arma... Zàxeras... la morte reificata...
Nhèthyrhann dovette accorgersene, perché gli si avvicinò e gli coprì un mano con la propria: «Cosa c'è? Non te la senti? Dobbiamo cercare un modo diverso?»
L'elfo era in subbuglio. Zàxeras aveva già preso molto, da lui. Durante il primo incontro con Hàrikhot, Xathàmklemhinn, acerrimo nemico (come ogni elfo dei Monti delle Nebbie) dei barbari Alhaturkh, aveva cercato di uccidere l'adolescente. Picchiato selvaggiamente col pomo dell'elsa di quella spada maledetta, l'elfo si era risvegliato cambiato. Cambiato nel profondo. Quel tripudio di vita che alberga nelle profondità dell'essere di ciascun elfo e che lo rende capace, tra l'altro, di vivere così a lungo, si era spento. Xathàmklemhinn, da quel giorno, aveva sempre sentito la morte dentro di sé.
«Non c'è altro modo» serrò i denti l'elfo, stringendo al contempo con gratitudine la mano della ex-paladina. «Faremo come dice Fgèhrhodd. Nulla è impossibile, se si agisce nello spirito dello Fphé. Lasciatemi meditare».
«Se dobbiamo aspettare una tua idea intelligente,» mugugnò Gùrp «aspetteremo parecchio».
«Ne hai forse una tu?» replicò brusca Nhèthyrhann, irritata dall'ingratitudine del nano verso chi si stava prodigando anche per lui.
Passò qualche tempo scandito soltanto dall'intermittente ululato del vento, mentre Xathàmklemhinn, immerso in comunione con l'aria e la roccia, restava così immobile da sembrare aver smesso di respirare. Quando l'elfo riprese a muoversi, Fgèhrhodd seppe che aveva trovato la soluzione. Il corretto modo di impiegare l'armonia segreta della creazione per ottenere i loro scopi. Il non-morto aveva nel mentre fatto esercitare Hàrikhot nell'attingere potere magico grezzo da Zàxeras, facendolo provare con crescenti quantità di energia esoterica, più e più volte. A quel punto, l'elfo e il non-morto cominciarono a cercare di guidare l'adolescente.
Hàrikhot tentò così ripetutamente di "far propri i ricordi delle ossa di Fgèhrhodd". Non i ricordi dello scheletro animato vero e proprio... bensì tutti gli echi di quelle lingue che quelle ossa avevano passivamente assorbito, nel corso della loro ordinaria esistenza. Quello, era stato il modo ideato da Xathàmklemhinn. Richiedeva un potere immenso, perché i ricordi passivi degli oggetti inanimati erano molto, molto difficili da rievocare e ancor più da interiorizzare. Il potere immenso, ce l'avevano. Ma, come tutte le volte che Hàrikhot provava a rivolgersi alla magia elfica, il problema era nelle istruzioni. Per gli elfi, la magia è naturale, istintiva. Xathàmklemhinn, una volta detto di "rievocare i ricordi delle ossa", non riusciva a spiegarsi ulteriormente. Era un passaggio elementare. Per lui, tentare di chiarire ulteriormente, sarebbe stato come cercare di spiegare in dettaglio come sollevare un dito.
«Non ce la fa» constatò Xathàmklemhinn, dopo diversi tentativi infruttuosi. «Non ha abbastanza esperienza per riuscirci. E ha troppa rabbia dentro. Non cerca i ricordi, li insegue. Li spaventa».
«Io non sono arrabbiato!» digrignò i denti Hàrikhot.
«Sì che lo sei» udì una voce il ragazzino Alhaturkh. «Non riesci ancora a separare il concetto di "magia" da quello di "male". Per questo ti ribolle tanta rabbia dentro, quando provi a lanciare un incantesimo. E per questo ti è così difficile riuscire nell'intento».
«Chi ha parlato?» si meravigliò Hàrikhot, volgendo la testa ora da una parte, ora dall'altra.
«Tu, Superficiale!» sbuffò Gùrp «Hai appena detto che non eri arrabbiato».
«Io ti ho parlato» l'adolescente udì, al contempo, la medesima voce di prima. «Io, Zàxeras, la spada che tieni stretta nel tuo pugno. Io sto parlando nella tua mente».
Hàrikhot spalancò gli occhi come per l'orrore, fissandoli sulla propria spada e fece per scagliarla via.
«No Hàrikhot!» si interpose Fgèhrhodd «Qualsiasi cosa stia succedendo... non farlo! Non buttare la spada!»
«Tu sei già consapevole che io sono magica, Hàrikhot» proseguì telepaticamente Zàxeras. «Il fatto che io lo sia a tal punto da poterti parlare, basta a farti rinunciare a tutto? A farti dimenticare che grazie a me hai salvato la tua gente? A farti abbandonare i tuoi progetti di opporti agli dei del male? Hàrikhot... tu sai che io sono stata per te una alleata fedele. Ho combattuto nel tuo pugno fino ad oggi, senza mai venirti meno. Non riesci proprio a vedere il mio alhat? Se non riesci a a vederlo... o a vedere che ci può essere alhat anche nella magia... non potrai mai realizzare ciò che ti sei prefisso».
Alhat.
Onore. Coraggio. Il concetto più caro in assoluto a ogni Alhaturkh. Hàrikhot si costrinse a fermarsi. A ripercorrere tutte le sfide e le battaglie alle quali era sopravvissuto forse soltanto in virtù dell'assistenza di quella spada.
Quella spada magica.
Zàxeras.
«Hàrikhot...» si era nel mentre fatta vicino una preoccupata Nhèthyrhann «Ti senti bene?»
L'adolescente Alhaturkh parve ancora per qualche momento perso dietro a misteriosi pensieri, poi mise a fuoco i propri occhi marroni, ora apparentemente più sereni, nelle turbate iridi blu della donna: «Sì, ho solo... fatto chiarezza nella mia mente. Penso di essere pronto a riprovare il sortilegio».
«Aspetta,» si offrì Nhèthyrhann, appoggiandogli le mani sulle tempie «lascia che ti aiuti anch'io. Lascia riposare il tuo spirito. Alaanòrkem veglierà su di te. Rilassati. Rilassati ora».
Con cadenza quasi ipnotica, la ex-paladina continuò a ripetere "Rilassati. Rilassati ora", come un salmo o una litanica preghiera.
«Funziona!» bisbigliò Xathàmklemhinn «E ora aiutalo anche tu, Fgèhrhodd; entra in risonanza. Ripensa a Hòvval, alla sua gente, ai rumori, alle parole. Ciò ravviverà i ricordi passivi. O ci riusciamo adesso, oppure mai più».
Hàrikhot cercava di aprirsi. Non sapeva nemmeno lui a che cosa: alla magia? Ai ricordi? Al vento che udiva sibilare intorno?
Provò a immaginare che i ricordi fossero il vento. E che il vento potesse attraversarlo, passargli dentro, oltre che intorno, intridendo ogni singola fibra del suo corpo.
Xathàmklemhinn gli aveva detto di aiutarsi con "le parole dei ricordi". Formule magiche che lo rendessero uno con la memoria del mondo. Con l'unica memoria dello Fphé.
Ovviamente, non era stato in grado di specificargli quali parole usare. Nel miglior stile della magia elfica, Xathàmklemhinn avrebbe saputo prontamente trovare quelle adatte a sé... ma Hàrikhot avrebbe dovuto trovare le proprie.
«Ricordi...» cominciò a mormorare Hàrikhot, come in trance «Ossa... Pietra... Casa... Fuoco...»
Via via che la trance andava approfondendosi, concetti e parole parvero fondersi gli uni negli altri in improbabili neologismi: «Barerant... Vekmorier... Ekass...»
Nel mentre, le mani del ragazzino barbaro cominciavano a muoversi lentamente, come di volontà propria, ora a sfiorare le ossa dello scheletro animato, ora a chiudersi a pungo come a trattenere qualcosa di ineffabile, ora ad aprirsi come ad assimilare una invisibile conoscenza.
Poi, così come a poco a poco si era approfondita, altrettanto gradatamente la trance scemò.
«Come è andata?» domandò infine Hàrikhot, riacquisendo la completa padronanza di sé «È riuscito, questa volta, l'incantesimo?»
E si accorse che lo aveva chiesto nella lingua delle Piane delle Stelle.

Scendendo gradatamente di quota, si erano sottratti all'aspro vento, lasciandosi però avvolgere completamente dal pervasivo umido abbraccio della nebbia. Avevano dovuto raddoppiare concentrazione e cautela nel discendere l'impervio sentiero, mantenendo tutti i sensi all'erta a scanso di eventuali agguati... ai quali quel mondo di spazi angusti, suoni ovattati e visibilità ridotta fin troppo si sarebbe prestato. Così, superato l'ennesimo pronunciato tornante, trovarsi improvvisamente fuori dall'aerea caligine e scorgere, davanti, a qualche centinaio di metri, tutt'al più un chilometro, il subitaneo nitore delle mura per le quali Hòvval era famosa, mozzò a tutti il fiato per la sorpresa.
«Sono proprio bianche...» dovette constatare Hàrikhot.
«Sono ancora belle come me le ricordavo dalla mia ultima visita...» sembrava combattuta tra piacevole meraviglia e dogliosa rimembranza Nhèthyrhann. La guerriera aveva fatto tappa a Hòvval prima di addentrarsi nei Monti delle Nebbie. Prima di quella impresa che ella non sapeva sarebbe stata l'ultima da lei condotta come paladina. E se da un lato le rinfrancava lo spirito, vedere che le belle mura della città erano rimaste candide ed immacolate come appena costruite, dall'altro quello spettacolo le ricordava ciò che era stata e che aveva, purtroppo, smesso di essere.
«Passabili» commentò con sufficienza Gùrp. «Almeno per una città monca...»
«"Monca"?» non comprese Fgèhrhodd.
«Non vedi che manca il tetto?» si costrinse a sottolineare l'ovvio Gùrp. Ah! Superficiali...
«Forse che tu hai mai visto un tetto più elegante, più variegato e più bello del cielo?» si informò Xathàmklemhinn.
«Tornamelo a domandare quando la grandine ti martellerà la zucca!» bofonchiò il nano, rassegnato alla futilità di ogni tentativo di ragionare con un Superficiale.
«Queste mura hanno un'importante lezione da insegnarci» prese la parola Fgèhrhodd, ormai sempre più preda di lontani ricordi. «Le Bianche Mura di Hòvval sono così note in tutte le Piane delle Stelle, da essere addirittura proverbiali. Che fareste, se qualcuno vi diceste che siete belli quanto le Bianche Mura di Hòvval? O che avete la coscienza candida come le Bianche Mura di Hòvval?»
"Penserei di aver incontrato l'ennesimo ingenuo imbecille" pensò Gùrp; al contempo, Xathàmklemhinn rispose, invece, ad alta voce: «Penso che ringrazierei l'interlocutore per il complimento; perché questa domanda?»
«Cominciamo ad avvicinarci; guidaci verso le porte principali, Hàrikhot» fu la compassata (non?) risposta dello scheletro animato. «Davanti alle guardie, dovrai essere tu il nostro capo o, per lo meno, il mio padrone, ricordi? Ma fermati un centinaio di metri prima delle mura, come se volessi rimirarle un altro poco».
Incuriosito, il giovane Alhaturkh obbedì e tutti lo seguirono. Quando il gruppo si fermò secondo le istruzioni, Fgèhrhodd si mantenne confuso in mezzo a tutti, in modo da non attirare minimamente l'attenzione, e, con gesti resi eleganti da intere vite di pratica, accompagnati da sillabe dall'esotica cadenza, lanciò furtivamente un incantesimo. Per un attimo, il non-morto ebbe paura di aver preteso troppo dalle scarse risorse arcane di cui poteva ormai disporre (uno scheletro animato, del resto, non avrebbe proprio dovuto essere in grado di ricorrere alla magia); ma poi invece tutto funzionò a dovere e, per lui e per il resto del gruppo, la gloriosa visione delle Bianche Mura cambiò drasticamente.
«Ehi! Sei stato tu?» fu il primo a meravigliarsi Hàrikhot, volgendo la testa verso il non-morto.
Gli altri, tuttavia, non erano meno perplessi. Le bellissime e candide mura di Hòvval erano in realtà ridotte in condizioni pietose. Fatiscenti, scrostate in più punti e, soprattutto, letteralmente sature di ogni schifoso genere di lordura!
«Dunque ciò che vedevamo prima è soltanto un'illusione?» fu il primo a comprendere Xathàmklemhinn, con un'ombra di perplessità in fondo agli occhi verdi «Ma perché?»
Nhèthyrhann, forse turbata più profondamente di tutti, nello scoprire che anche l'ultimo ricordo positivo che aveva della propria impresa finale era fasullo, menzognero, inquinato all'origine, aveva addirittura mosso un involontario passo indietro.
«Un tempo le Bianche Mura erano davvero candide ed immuni da ogni sporcizia» spiegò Fgèhrhodd. «Il loro perenne nitore era simbolo dell'imperitura gloria e potenza della città. E i cittadini, ben sapendo che le potenti stregonerie dei migliori maghi di Hòvval impedivano che le mura si insozzassero, avevano ben presto preso l'abitudine di tentare di sporcarle. Anche al giorno d'oggi, c'è chi evacua contro le Bianche Mura... e non per atto di spregio, bensì di orgoglio: constatare che nemmeno così possono sporcare il simbolo della gloria cittadina li fa gongolare tronfi».
«Quindi nessuno si offenderà se farò lo stesso anch'io!» concluse Gùrp. Bizzarro. In una ordinata e regolata città sotterranea nanica, un comportamento simile non sarebbe stato mai permesso! Altro che gongolare...
«Vero» concesse Fgèhrhodd, con una lieve nota di divertimento nella voce. Dopo di che continuò: «Purtroppo, però, al giorno d'oggi, non si lanciano più gli antichi incantesimi per la conservazione delle mura... altri ne vengono lanciati al loro posto; non sono al corrente della ragione di questo, anche se nutro forti sospetti. I nuovi incantesimi non preservano davvero le mura... salvano soltanto le apparenze. Sono illusioni. Illusioni così potenti da impedire, addirittura, che la sporcizia che infesta le Bianche Mura le abbandoni e lordi chi vi cammina sopra o chi vi si appoggia... ma pur sempre illusioni. Apparenza».
Dopo una breve pausa ad effetto, il non-morto riprese: «Badate: io non vi ho parlato delle Bianche Mura soltanto per rendervi edotti sul costume locale. Io volevo farvi comprendere quanto sia ingannevole e, allo stesso tempo, sfaccettata e complessa la realtà in cui stiamo per immergerci. Vi ho già detto che il candore delle Bianche Mura è così noto da essere ormai proverbiale. Quindi, molti ingenui cittadini potrebbero paragonarvi alle mura di Hòvval per rivolgervi un sincero complimento. I più potenti, però, sono a conoscenza del reale stato delle cose. Sulle loro labbra, dunque, un riferimento alle Bianche Mura potrebbe costituire un mascherato insulto, una presa per i fondelli...»
Lieto d'avere l'attenzione di tutti, lo scheletro animato proseguì: «Stiamo abbandonando le terre selvagge, dove i nemici erano violenti e pericolosi... ma spesso riconoscibili in maniera inequivocabile. Qui, a Hòvval, il contesto sarà complesso. Le fazioni capeggiate dai più potenti cittadini sono varie e complottano ciascuna per il proprio esclusivo tornaconto. Si stipulano alleanze. Si tramano tradimenti. Gli amici di oggi possono essere i nemici di domani. In un ambiente così articolato e così sfaccettato, dovremo sempre ponderare le nostre mosse. E, considerando che tutte le principali fazioni non si fermerebbero davanti a nulla per assurgere a una netta posizione di predominio, dovremo cercare di guadagnarci l'alleanza di qualcuna di queste... ma senza dare l'impressione di poterne minacciare gli interessi o il potere! Vediamo di non ricorrere alla piena magia di Zàxeras, se non confrontati da forti potenze occulte. Se tra i phurg di Hòvval dovesse cominciare a circolare la più piccola voce su una fonte di potere di questa portata... ci troveremmo in una bolgia quale nemmeno le infernali potenze che già abbiamo affrontato hanno mai scatenato su di noi!»

Le guardie che vigilavano sotto l'ampia ed alta arcata della porta principale si sforzavano di mantenere un contegno marziale, pur nel freddo del mattino d'inverno, col peso delle cotte di maglia addosso e brandendo armi lunghe, ma dall'aspetto assai rozzo, simili a specie di grandi roncole montate su aste. Gli armigeri non nutrivano tuttavia uno smodato desiderio di abbandonare a lungo le rispettive posizioni riparate per intrattenersi lungamente a conversare con gli stranieri tra intermittenti raffiche di algido vento: si limitarono a poche domande di rito sull'identità e le generali intenzioni dei nuovi venuti, dopo di che l'eterogeneo drappello ebbe il permesso di entrare.
Hàrikhot cominciò a guardarsi intorno frastornato. Pietra. C'era pietra ovunque. Era già stato in luoghi ove le litiche ossa del pianeta costituivano la maggior parte dell'ambiente... ma quella roccia era comunque sempre stata in armonia col paesaggio, parte del paesaggio... Lì, invece, nella città, la pietra era il paesaggio. Il ragazzino era già stato in una città; una città nanica, nelle viscere della terra... ma la diffusa oscurità gli aveva precluso quell'ampio sguardo d'insieme che ora gli si apriva su quella realtà la quale tanto lo sconcertava.
«Come ho detto, non siamo nessuno» mormorò soltanto allora Fgèhrhodd. Che fosse rimasto anche lui perso nello sconcerto per qualche attimo, pensò Hàrikhot? Ma no, il ragazzino si sbagliava; lo scheletro animato non era stato assalito da sorpresa o meraviglia. Soltanto da un groviglio di emozioni inspiegabili e inattese. Da ricordi. Ricordi di migliaia di anni addietro.
«Quindi,» proseguì tuttavia risoluto il non-morto «dovremo cominciare trovando posto tra gli ultimi. Segui i vicoli a sinistra, Hàrikhot. Quelli che corrono paralleli alle mura. Ci condurranno dove dobbiamo andare».
Hàrikhot obbedì automaticamente, quasi troppo confuso per rendersi realmente conto di quanto stava facendo. Se la prima impressione era stata la pietra, la seconda fu la gente. Tanta. Dovunque. Si circolava lentamente, lungo la pur ampia strada principale, ingombra di ogni genere di individui, alcuni che deambulavano come sfaccendati, altri che si aggiravano, apparentemente più certi della propria meta, recando in mano sacchi, mercanzie, animali o strani oggetti, altri che conversavano a gruppi, altri che tentavano di richiamare l'attenzione dei passanti su quanto i rispettivi negozi avevano da offrire. I cavalieri circolavano al passo, trovando (o, al limite, creando) agevolmente varchi per farsi largo in mezzo all'andirivieni generale; ben più frustrati erano i carrettieri, le cui colorite e reiterate imprecazioni soltanto a fatica riuscivano a garantire loro lo spazio necessario al transito.
«Attento, Hàrikhot!» si fece avanti Nhèthyrhann, tirando il ragazzino per un lembo di quel confuso insieme di brandelli di pelliccia che presso gli Alhaturkh passava per ordinario abbigliamento; il giovane barbaro guardò prima la donna, poi, seguendo lo sguardo della stessa, davanti, ai propri piedi. Ed assimilò così un altro tratto distintivo della città. Il fetore. Non soltanto quello del disgustoso canale di scolo in cui il provvidenziale intervento della guerriera gli aveva impedito di affondare col piede, ma anche quello del folto di animali e umanoidi spesso assai scarsamente lavati, così come la forte alchimia dei diversi odori delle più disparate attività artigianali, i quali si mescolavano all'afrore di cibo con una naturalezza che suggeriva un'inquietante fratellanza.
«Superficiali!» bofonchiò con disgusto Gùrp, immaginando in quanto poco tempo sarebbero divenute invivibili le città sotterranee caratteristiche del suo popolo, se fossero state altrettanto caotiche e disorganizzate.
Il gruppo raggiunse gli stretti vicoli che Fgèhrhodd aveva consigliato e questa volta fu l'elfo Xathàmklemhinn, ancora prima di Hàrikhot, a cogliere un altro tratto caratteristico delle città umane. Claustrofobiche. Lungo la stradina, le persone erano assai meno; tuttavia, il disagio era maggiore che sulla via principale, perché il vicolo era sudicio, stretto... e reso ancora più scuro e opprimente dalle costruzioni laterali, edificate a sbalzo.
«Mi domando con genuina curiosità chi sceglierebbe di confinarsi in un luogo simile» fece Xathàmklemhinn.
«Penso che ben pochi lo "sceglierebbero"...» replicò Fgèhrhodd «Purtroppo, c'è anche chi, come noi, non ha scelta. Comunque non è qui che siamo diretti».
«Non posso che sentirmi sollevato» commentò l'elfo.
«Aspetta a giudicare» fu l'invito dello scheletro animato.
Attraverso i vicoli giunsero a una graziosa piazzetta, al centro della quale un pozzo consentiva di attingere acqua. Tutti i membri del gruppo soggetti alle necessità di sostentamento si dissetarono e, nel mentre, l'attenzione di Hàrikhot fu catturata da alcuni cittadini i quali vendevano i prodotti dei piccoli orti che circondavano le rispettive dimore. Il ragazzino vide un uomo ottenere una cesta di broccoli e cavolfiori in cambio di... di qualcosa di piccolo, difficile da distinguere a quella distanza.
«Tu sai cosa ha fatto quell'uomo per avere la verdura?» domandò il giovane Alhaturkh a Fgèhrhodd.
«L'ha pagata» rispose Fgèhrhodd. «Ha dato dei ducati in cambio».
Il non-morto lesse con facilità l'incomprensione in fondo ai marroni occhi dell'interlocutore e spiegò più a fondo: «Qui, in città, tutto si basa sui ducati, le monete di Hòvval. Puoi pensare ai ducati come a della merce speciale, che puoi scambiare con tutto. Puoi scambiare dei ducati con del cibo. Col permesso di dormire al riparo. O anche con una casa o una torre, se ne hai abbastanza. Ti serviranno ducati, per studiare magia alla scuola di Hòvval».
«E come faremo per averli?» domandò Hàrikhot.
«Convincendo qualcuno a darceli» intervenne Gùrp. «Si chiama "lavoro"» e lanciò un breve sguardo di complicità al non-morto «ed io non vedo l'ora di cominciare, perché, con tutte le scarpinate che mi avete fatto fare ultimamente, credo di avere un po' di peso da recuperare!»

«Non è possibile» stentava a credere ai propri sensi Xathàmklemhinn, sgranando gli sbigottiti occhi verdi.
«Ti avevo avvisato di attendere, a giudicare» gli ricordò pacatamente Fgèhrhodd.
«Anche a Tèkkha avevamo i bassifondi» classificò correttamente la zona Nhèthyrhann. «"Il Quartiere degli Onesti", li chiamavano, perché lì tutti si dichiaravano ostinatamente tali, coprendosi a vicenda e rifiutando ogni forma di collaborazione con le forze dell'ordine della città. Quasi una piccola città a sé stante, col potere dei criminali più forti in luogo...»
«... In luogo di quello dei cittadini più ricchi?» non riuscì a trattenersi dal completare ironicamente Fgèhrhodd «Mi chiedo chi potesse tollerare un siffatto regime d'ingiustizia...»
«Comunque sia,» rifiutò di lasciarsi coinvolgere in una discussione Nhèthyrhann «è in un luogo simile che ci hai portati?»
«Questo,» replicò Fgèhrhodd, abbracciando con un ampio gesto dell'ossuta mano il labirintico intrico di viuzze creato dalle case fatiscenti costruite a sbalzo, da edifici pericolanti e da occasionali macerie «è lo Stretto. E no, non è sede di forte crimine organizzato. Non è un centro di potere; è soltanto ciò che resta a chi già ha perso tutto. Troveremo un alloggio qui. Non sarà difficile».
I cinque si addentrarono per le vie scure, sozze e deprimenti. In un'occasione, Fgèhrhodd, avvisato telepaticamente da Zàxeras, fece sì che il gruppo si spostasse rapidamente da sotto una pioggia di pesanti macerie, staccatesi da una costruzione troppo decrepita. In un'altra, l'attenzione del gruppo fu catturata da una animata discussione in una viuzza laterale: un uomo e una donna inveivano contro tre giovinastri. Prima ancora che i membri del gruppo potessero decidere che cosa fare, si scatenò una violenta zuffa.
«Non lasciamoci coinvolgere» bisbigliò Fgèhrhodd agli altri, esortandoli a proseguire come se nulla fosse. «Non è nulla che ci interessi».
«Ma potremmo...» iniziò a dire Nhèthyrhann, apparentemente intenzionata, a differenza degli altri, a fermarsi per intervenire in qualche modo.
«Qualsiasi cosa tu facessi, Nhèthyrhann,» tornò indietro a trascinarla via per un braccio lo scheletro animato «sarebbe la cosa sbagliata. Perché sarebbe la cosa fatta da un'altra. Da una che non è dei loro. Una venuta a dire a loro come comportarsi. Lo capisci, questo? Non lo accetterebbero mai. Hanno soltanto il loro orgoglio... almeno quelli che ancora ce l'hanno. Non accetteranno che gli porti via anche quello. Quando saremo dei loro, forse ti ascolteranno. Ora riprendi a seguirci e mai, bada, mai staccarti da noi».
«Sono uscita viva dal Quartiere degli Onesti!» scintillarono gli occhi blu di Nhèthyrhann.
«Quindi molti di quegli Onesti ci sono morti,» concluse Fgèhrhodd, le proprie vuote orbite che sostenevano senza difficoltà il vivo sguardo dell'interlocutrice «o sbaglio?»
«No» abbassò il capo con vergogna Nhèthyrhann, riunendosi al resto del gruppo e mordicchiandosi nervosamente le belle labbra. Ricordava fin troppo bene con quante buone intenzioni era entrata in quel regno della miseria e dell'emarginazione. E che cosa aveva rischiato. E quante vite aveva dovuto spegnere per salvare la propria.
«O venerabile antico,» Xathàmklemhinn si fece vicino a Nhèthyrhann, guardando lo scheletro animato con un velo di compatimento «mal si addice alla tua ponderata saggezza e alla tua vasta esperienza, questa tua astiosa abitudine di cercare invariabilmente biasimo da riversare sulla nostra amica» e mise una mano sull'alta spalla della guerriera. «Il fatto che in passato sareste stati avversari non ti faccia dimenticare che nel presente ha salvato la vita a tutti noi!»
«E la tua galanteria nei suoi confronti» si riportò al centro del gruppo il non-morto «non ti renda cieco al fatto che, adesso, pur biasimandola, gliel'ho probabilmente appena salvata a mia volta».
Dovettero poco dopo superare una viuzza in cui una torma di bambini laceri e cani smagriti si lanciarono sul gruppo all'unisono, a bocche protese, come per sbranarli vivi, e non intesero ragione se non dopo che la metà di loro cadde riversa nel fango e sui detriti, morta o morente, prontamente aggredita (e sbranata) dai compagni superstiti.
«Non si sono fermati nemmeno quando ho invocato su di loro la pace di Alaanòrkem» aveva gli occhi lucidi di lacrime Nhèthyrhann. La quiete serenatrice del suo dio riusciva spesso a placare nemici all'apparenza feroci...
«Si vede che non ha riempito loro la pancia» commentò Fgèhrhodd.
«Non c'è alhat, in questo!» ringhiò rabbiosamente tra i denti Hàrikhot, che pure aveva abbattuto due bambini e tre cani «Che tribù è questa, dove c'è chi cammina ben nutrito... mentre ci sono bambini così!?»
«Infatti, questa non è una barbara tribù, Hàrikhot...» sospirò Fgèhrhodd «Questa, è una civilizzata città...»
E, prima che il ragazzino potesse riaprire la discussione, indicò una costruzione dall'aspetto meno fatiscente delle altre: «Quella! Quella potrebbe essere un'abitazione che fa al caso nostro. In condizioni non pessime... Abbastanza spaziosa per tutti noi... Abbastanza addentro al quartiere da garantirci una certa riservatezza... Forza, entriamo e vediamo se è libera. Ci fai strada tu, Gùrp?»
Gùrp prese la testa del gruppo senza dare a nessuno il tempo di replicare: gli sorrideva l'idea di un po' d'azione. Il sacco d'ossa cominciava quasi a stargli simpatico. Almeno, con lui, era più facile intendersi. Che i Superficiali, da morti, acquistassero maggior senno?
Senza soffermarsi in ulteriori meditazioni, il nano calciò violentemente la porta, facendola cadere con fragore all'interno, divelta dai vecchi cardini.
Nhèthyrhann fece per protestare, ma ben più veementi recriminazioni giunsero da dentro, tanto da un gruppo di giovinastri che accorse rapidamente dal piano terreno, quanto da due goblin che scesero da una bassa soffitta brandendo coltellacci. Conscio di quanto rude avrebbe potuto rivelarsi il benvenuto con cui sarebbero stati ricevuti, Xathàmklemhinn incoccò una freccia al proprio lungo arco elfico, tese con tutto il vigore dei propri muscoli, allenati da innumerevoli anni di pratica con quella potente arma, e scoccò, facendo sibilare il dardo poco sopra la testa del nano, a colpire un avversario in pieno petto. Mentre il sudicio giovane crollava con un'espressione stupefatta sul volto, il nano si avventò di corsa su per le scale, incontro ai goblin, pronto a calare il proprio piccone impugnato a due mani.
«Gùrp! Non dovevamo aggredirli!» ringhiò Hàrikhot, furibondo al vedere i restanti giovinastri che gli si scagliavano addosso, bastoni alla mano, forse pregustando una facile preda. «Questa casa non è nostra!»
«Non è nemmeno loro!» assicurò Fgèhrhodd «Ti pare che uno terrebbe così un'abitazione di sua proprietà? Avranno ammazzato i legittimi occupanti rubando loro la casa!»
A Hàrikhot non piaceva uccidere senza motivo, ma dovette ammettere che l'altro aveva probabilmente ragione... e che quello non era il momento per i dubbi: con movimenti decisi, precisi e fluidi come se li avesse compiuti da quando era in fasce, il giovane barbaro mulinò Zàxeras a fendere le carni di uno, due, tre avversari... e anche del quarto, il quale, agghiacciato dalla rapida dipartita dei propri predecessori e dal sangue che allagava ora l'ingresso, si stava preparando a ritirarsi. Gùrp, nel mentre, aveva rapidamente aperto la testa di un goblin con la propria arma, aveva rincorso l'altro esserino, il quale era di nuovo sparito in soffitta, aveva spaccato con una testata la cassa di cianfrusaglie che il goblin, ricomparso, gli aveva scaraventato contro per fermarlo... poi era entrato a propria volta. A giudicare dai rumori, doveva essere intento a divertirsi a massacrare lentamente il goblin a pugni e calci.
«Disgustoso!» storse le piene labbra Nhèthyrhann, affrettandosi su per le scale. Salì in soffitta anche lei, raccogliendo il coltellaccio del goblin defunto. Uno stridulo grido di morte percorse la casa.
«Non avevo bisogno del tuo aiuto!» barrì un nano oltremodo offeso «Non correvo nessun pericolo!»
«Infatti,» ribatté Nhèthyrhann, gelida «non è te che ho inteso aiutare».
«Perlustriamo bene l'abitazione» suggerì Fgèhrhodd; «se ora la scoprissimo abbandonata, nulla ci vieterebbe di insediarci...»
«E va bene» scese le scale Nhèthyrhann; «ma se non la scopriamo abbandonata, questa volta, amici, dai, lasciate che parli io! Intesi?»
«Ma certo, paladina!» lasciò trasparire tutta la propria ironia dal tono di voce Fgèhrhodd «Tuttavia, pensa alla composizione del gruppo di abitanti... Cinque giovani bulli armati di bastoni e due goblin con coltellacci in mano... Non so com'erano tua mamma e tuo papà... ma a me una congrega di questo genere fa pensare più a una banda di briganti che a una serena famiglia».
«Bisogna in effetti ammettere, tutto considerato...» cominciò Xathàmklemhinn.
«Ma dai, taci, anche tu!» sbottò una Nhèthyrhann palesemente stizzita, salvo poi cominciare ad esplorare l'abitazione.
La perquisizione non portò alla scoperta di altri abitanti; di conseguenza, il gruppo decise di adottare la fatiscente costruzione come propria temporanea dimora. Gùrp fu visto perquisire i cadaveri e, interrogato su che cosa stesse facendo, mostrò la misera quantità di monete recuperata: «Ci servivano ducati, no? Perché sciupare questi? Ce li siamo guadagnati».
«E così è questo ciò che tu chiamavi "lavoro"?» si informò Hàrikhot «Il "convincere qualcuno a darci i ducati?" Sai, dalle mie parti ha un altro nome...»
«Non stare a sottilizzare, sbarbatello!» sbottò Gùrp, raschiandosi la gola e sputando sui cadaveri ammucchiati da parte «Più convinti di così!»
Per il resto del giorno, Fgèhrhodd coordinò le operazioni per una messa in sicurezza dell'abitazione, sfruttando l'abilità manuale di Gùrp, la buona volontà di Nhèthyrhann e la magia; soprattutto di Xathàmklemhinn, ma anche, a titolo di allenamento, di Hàrikhot. Misteriosamente, in quanto non avrebbe saputo dire come ciò stava accadendo, il ragazzino Alhaturkh stava a poco a poco acquisendo un minimo di confidenza con quella magia elfica che a lungo gli era parsa così aliena. Riuscì anche, risultato per lui inaudito, a chiudere alcuni spifferi tra le assi, o a renderne alcune meno marce. Il ben più esperto e abile Xathàmklemhinn fece il resto. Ebbero cura che, dall'esterno, l'abitazione mantenesse il proprio aspetto cadente... Non volevano attirare troppo l'attenzione... tuttavia, all'interno la resero più calda e confortevole e Nhèthyrhann, alla fine, la benedisse nel nome di Alaanòrkem, in modo che il Dio della Protezione che l'ordine dello Scudo Onnipresente venerava vegliasse sulla costruzione e su tutti loro.
«Vado a mettere qualcosa sotto i denti» bofonchiò Gùrp, a lavori ultimati, dopo il tramonto.
«Il denaro che hai tolto a quei poveracci appartiene a tutti, Gùrp» volle rimarcare Fgèhrhodd. «Siamo un gruppo».
«Non basta per tutti!» fece bellicosamente il nano.
«Tu però,» intervenne Xathàmklemhinn «sei anche l'unico che ha già parzialmente sedato i morsi della fame...»
«Per quei due topi che ho ucciso e mangiato in soffitta!?» si indignò Gùrp «Ma se non li voleva nessuno!»
«Calma!» prese la parola Fgèhrhodd «Mangeremo tutti. Non dimenticatevi che ho una certa dimestichezza con questa zona. Voi restate qui; non ci conviene lasciare l'abitazione del tutto abbandonata, in questo primo giorno. Con me verrà Gùrp; troveremo altro lavoro e torneremo con un po' di cibo per tutti».
«"Lavoro"?» corrugò la fronte Nhèthyrhann «A quest'ora? E se venissi anch'io con voi?»
«Non sto pianificando uccisioni,» fece Fgèhrhodd, serio «se è questo che temi. Mi serve Gùrp perché è il più robusto. C'è chi organizza rudi divertimenti, se si sa dove cercare. E c'è qualcuno disposto a scommetterci sopra qualche moneta; pare aiuti a dimenticare per un poco la realtà di miseria che questa gente affronta quotidianamente. Probabilmente, però, se tu davvero volessi aiutare, qualche divertimento potresti offrirlo anche tu...»
Nhèthyrhann non rispose, se non con lo sguardo dei propri occhi blu. Ma non lo sguardo collerico che Fgèhrhodd si era aspettato. Uno sguardo incerto, spaventato... Fgèhrhodd prese mentalmente nota, abituato da vite e vite, da vivo e da non-morto, a fissare bene nella mente tutte le eventuali debolezze di amici o nemici delle quali venisse a conoscenza; tuttavia smise di stuzzicare la guerriera. Non la odiavaveramente. Si divertiva soltanto a farle occasionalmente "pagare" il fatto di essere stata, un tempo, una persona che, se lo avesse incontrato, lo avrebbe probabilmente eliminato in modo sommario.
«Se ho capito bene,» fece Gùrp, una volta che lui e Fgèhrhodd furono fuori «c'è da rompere qualche testa?»
«Sì, può darsi,» rivelò lo scheletro animato «ma non certo in qualche stupido incontro contro tizi grandi e grossi come ho lasciato credere agli altri... È vero che non stavo pianificando uccisioni... Ma qualche semplice furto sì! Nei prossimi giorni, tenteremo di affiancare agli ordinari espedienti la ricerca di un lavoro onesto. Se lo trovassimo, ci garantirebbe maggiore stabilità. Ma intanto, stiamo attenti a evitare le ronde».
«Ronde?» fece il nano.
«Sì» spiegò Fgèhrhodd; «qui nello Stretto c'è il coprifuoco... Non ci si può aggirare la notte... Chi lo fa è subito considerato un criminale! E, dato che nessuna guardia con un briciolo di senno si avventurerebbe per questi vicoli per far rispettare la disposizione... vengono sguinzagliate in giro pattuglie di zombi armati di randelli. Quelli che vengono trovati, vengono bastonati a sangue. Anche a morte, qualche volta. Chiaro?»
«Superficiali!» esclamò con disprezzo Gùrp.

Quella sera, in effetti, sebbene frugalmente, ovvero a base di verzura invernale, mangiarono. È sorprendente la solidarietà che un nano con pochi scrupoli sa ispirare, specialmente presso le famiglie dello stretto più vicine alla condizione di diseredati miserabili che a quella di duri criminali.
Nel corso dei giorni successivi, ogni membro del gruppo si diede da fare per rimpinguare la vuota cassa comune. Hàrikhot e Fgèhrhodd svolgevano occasionali lavori pesanti. Il ragazzino Alhaturkh aveva pensato di proporsi piuttosto per incarichi più bellicosi, probabilmente più richiesti e meglio remunerati, ma lo scheletro animato lo aveva sconsigliato vivamente: «Non puoi permetterti di fare a pezzi la gente con Zàxeras! Se cominciassero a girare voci (e puoi scommettere che succederebbe) sarebbe la fine!»
«So combattere anche con armi comuni!» aveva ribattuto una volta Hàrikhot; ed era vero: non trascorreva giorno che, agli esercizi di magia con Fgèhrhodd e Xathàmklemhinn, il ragazzino non affiancasse esercitazioni di combattimento con Gùrp, come da abitudini consolidate lungo il viaggio che li aveva condotti a Hòvval.
«Ottimo» aveva però chiuso la discussione Fgèhrhodd; «ma anche buona parte degli abitanti dello Stretto ne è capace! Ti va di rischiare ogni giorno che uno di loro ti spacchi la testa o ti sbudelli con un colpo fortunato? Vale così poco, per te, la tua vendetta?»
Vendetta.
Contro quelle malvagie ed oscure forze che gli avevano tolto tutto. Rovinato l'esistenza. E che forse ambivano a minacciare tutti gli Alhaturkh dei Monti delle Nebbie. Hàrikhot ricordava bene la ragione per cui era venuto a Hòvval. Quindi, si era lasciato convincere. Fortunatamente, la forza e la tenacia derivanti dalle sue origini barbare lo aiutarono a venire ingaggiato volentieri, oltre che a procurargli l'appellativo di "Bestione", mentre Fgèhrhodd, ben presto spiritosamente soprannominato "Smilzo", aveva buon gioco nel far valere la propria infaticabilità di non-morto.
Xathàmklemhinn e Nhèthyrhann iniziarono invece a costruirsi una moderata fama di esoteristi dei vicoli. L'elfo, sfruttando la semplicità, retaggio della sua razza, con cui gli riusciva di entrare in magica comunione con l'ambiente, gli animali, o anche i semplici elementi, poteva facilmente riferire dietro compenso degli spostamenti delle guardie, vive o non-morte. Dal momento che chi veniva a conoscenza di informazioni di cui non intendeva svelare la fonte era solito dire di averle udite "da un uccellino", fu così che Xathàmklemhinn venne soprannominato "Uccellino" dagli abitanti dello Stretto. Nhèthyrhann, invece, sfruttando i sacri poteri che la ritrovata comunione con Alaanòrkem le aveva di nuovo dischiuso, curava o benediceva le persone a fronte di un magro compenso. In molti le chiedevano anche di leggere loro la mano o il futuro, ma Nhèthyrhann, ben sapendo che non esistevano mezzi magici o sacri di sorta per ottenere predizioni realmente affidabili, rifiutava... con gran gioia delle poche chiromanti abbastanza abili nelle proprie fraudolente finzioni da non farsi mai scoprire da un cliente troppo scaltro né da predire le cose sbagliate a un individuo troppo irascibile.
Inizialmente, Nhèthyrhann aveva provato a convincere alcuni dei propri clienti che farsi leggere la mano equivaleva a sperperare invano denaro; aveva però incontrato una fiera opposizione da parte delle vittime. E, col tempo, aveva capito. Quell'opposizione non era fiera, bensì disperata. I poveracci non stavano sperperando denaro... lo stavano impiegando per acquistare una merce per loro assai preziosa: speranza. Forse illusoria, forse infondata, forse mal riposta, ma speranza, che li facesse andare avanti per un'altra ora, giornata, o forse decade ancora, nella difficile realtà dello Stretto.
Pertanto, dalla propria ostinazione la donna ricavò soltanto il soprannome di "Non Legge".
Gùrp, invece, si avvicinò effettivamente agli "intrattenimenti rudi" di cui Fgèhrhodd aveva parlato la prima notte. I combattimenti non erano frequenti. E non si sapeva mai chi ci si poteva trovare di fronte: si andava dal bullo velleitario al duro e abile picchiatore da strada, dal combattente in disgrazia al semplice bestione. E, ovviamente, quasi sempre le lotte erano truccate. Chi nascondeva sassi nelle mani. Chi, nel bel mezzo della lotta, afferrava apertamente uno sgabello, un bastone, o un oggetto contundente. Chi aveva qualche "compagno" che lo aiutava segretamente con qualche trucchetto magico o sacro da due soldi. Ma Gùrp non era da meno, sul piano delle ordinarie scorrettezze. Svariati decenni di servizio militare tra la milizia di Anumàr, la sua comunità sotterranea nel sottosuolo dei Monti delle Nebbie, gli avevano insegnato trucchi di ogni genere, dalla sabbia da tenere in tasca e tirare negli occhi al momento buono, al robusto coperchio metallico da nascondere sotto gli abiti a proteggere parti altrimenti vulnerabili, a un'infinità di altri, tanto che il popolo dei vicoli prese a chiamarlo "Sorpresa". Come se non bastasse, in caso di necessità, per aiuti sul piano dell'occulto, il nano poteva contare su Xathàmklemhinn... o anche su Nhèthyrhann, se riusciva a convincerla che l'avversario (come in effetti spesso davvero accadeva) stava cercando un iniquo vantaggio con una furtiva guarigione o benedizione. E, a parità di altri fattori, la supremazia tecnica dell'addestrato avventuriero si dimostrava spesso determinante.
Gli espedienti, tuttavia, erano per loro natura saltuari e incostanti... fu pertanto con evidente entusiasmo che Fgèhrhodd accolse l'annuncio che Gùrp, reduce da un trionfo serale, gli portò: «Sai quel nano che ho appena finito di sbatacchiare? I due suoi compari che l'hanno raccolto hanno parlato di una miniera... dove domani dovrebbe andare a lavorare. Secondo me non ce la può fare. Avranno bisogno di un rimpiazzo. Potrei andarci io, che una certa esperienza ce l'ho. Così eviterei di rimbambirmi tutto il giorno in questo inferno senza pareti e senza soffitto. E se volete tentare di lavorare lì anche voi, posso provare a metterci una buona parola. Accetteranno, pur di poter assumere un nano. E poi, in tutte le miniere che conosco, i Superficiali sono sempre utili, come mano d'opera sacrificabile».
Il giorno dopo, come previsto, Gùrp Sorpresa e il resto del gruppo raggiunsero la miniera di Thàr Lùgronn. Come anticipato, mastro Mòlmerhodd, l'uomo al quale i gonfi riccioli rossi davano un'aria bizzarra e vagamente minacciosa, accettò di assumere alle proprie dipendenze, oltre al promettente nano, il pugno di apprendisti... mettendo ben in chiaro che, se si fossero dimostrati pigri o inutili, li avrebbe cacciati senza pensarci su due volte.
Raggiunto un magazzino dalle spesse pareti di tronchi, vi lasciarono abiti e equipaggiamento (sotto la cautelativa protezione di un sortilegio di disinteresse lanciato con l'appoggio di Zàxeras) e indossarono la tenuta da lavoro, comprensiva del cappello dall'alto cappuccio e dello spesso grembiule di cuoio.
«Sapresti chiarirmi, o intrepido esploratore del sottosuolo,» domandò Xathàmklemhinn Uccellino, fissando su Gùrp i propri verdi occhi perplessi «la funzione di un copricapo tanto ingombrante? Sembra esserci già così poco spazio, in quegli angusti cunicoli...»
"Superficiali..." pensò il nano con insofferenza, scuotendo il capo; poi rispose: «Sei già arrivato a capire che i cunicoli sono angusti. Ora, fai un ultimo sforzo e domandati: è meglio scoprire quanto sono angusti sbattendoci contro la tua zucca vuota... o la punta del cappello?»
«Semplice ed efficace!» comprese Nhèthyrhann Non Legge, intromettendosi «Se senti il cappello che tocca il soffitto, capisci che devi abbassarti».
«Ehi, "maestro",» Hàrikhot Bestione apostrofò allora Gùrp, divertito «ti sei tanto distratto a insegnare, che hai messo il grembiule alla rovescio!»
«E allora,» si raschiò la gola e sputò il nano «tu tienilo alla dritta, così magari imparo qualcosa».
L'adolescente Alhaturkh, tuttavia, conosceva abbastanza Sorpresa da insospettirsi per una reazione tanto mite... così, al pari degli altri, preferì indossare il grembiule come il nano, apparentemente al contrario, a proteggere non la parte davanti del corpo, ma quella di dietro (il deretano, in particolare). Come ebbe modo di scoprire dopo una giornata in cui dovette lavorare per gran parte del tempo seduto su dure pietre, la scelta fu quella giusta.
Quel giorno furono affidati a Ròlf, un caposquadra nano calvo e con una vistosa voglia in fronte, dalla nera barba legata in una moltitudine di treccioline, il quale non li dovette trovare simpatici. Forse era un amico del nano che Gùrp aveva sostituito. Spaccarono pietre e trasportarono detriti tutto il giorno. Scoprirono che, per non essere "pigri", dovevano lavorare più ore di quanto avessero ufficialmente concordato (mica volevano lasciare lo scavo così, incompiuto, per una quisquilia come l'orario, vero?). E non erano troppo ansiosi di appurare che cosa avrebbero dovuto fare per non essere "inutili".
Uscirono la notte dalle viscere della terra, coperti di polvere, e uno dei sorveglianti della miniera si fece avanti per perquisirli. Non Legge, solitamente del tutto padrona di sé, tremava. E il sorvegliante, fin troppo abituato alle noiose esplorazioni di soli individui di sesso maschile, si diresse subito verso di lei.
«La prego, o misericordioso archetipo di giustizia,» intervenne Xathàmklemhinn, accorgendosi della cosa «garantiamo noi della assoluta integrità morale della nostra amica! Non voglia metterla in imbarazzo con...»
«Togliti!» gli sferrò una randellata l'uomo, adirato per l'impudente intervento. In una miniera d'argento, fidarsi era l'ultima cosa che ci si potesse permettere di fare!
L'elfo evitò il colpo e, mentre il tipaccio gli passava di fianco, lievemente sbilanciato, sussurrò all'orecchio dell'uomo: «La tua paga dev'essere davvero buona, perché sappi che se insisterai nei tuoi certo giustificatissimi propositi, una freccia del mio arco verrà a farti visita, questa notte!»
Il sorvegliante fissò l'elfo, incerto. Non era abituato ad essere minacciato da individui che, in teoria, avrebbero dovuto risultare sottomessi alla sua autorità. Ma la fama di arcieri degli elfi era ben nota... E quegli occhi verdi sembravano così decisi...
Nessuno aveva notato niente. Allora, il sorvegliante, in via del tutto eccezionale, si fidò, limitandosi a perquisire gli altri.
Paladina e compagni riposero in magazzino attrezzi e abiti da lavoro, recuperarono gli effetti che avevano ivi depositati e si avviarono verso casa.
«Bel lavoro, ragazzi!» si complimentò il nano con Uccellino e Nhèthyrhann «Convinto una volta, lo convinceremo anche le prossime! Ci pensate, a quanto argento potremmo nascondere addosso alla nostra paladina?»
Xathàmklemhinn fissava il nano senza divertimento, mentre Non Legge si teneva vicina all'elfo, come a volerglisi buffamente nascondere dietro, lei, che lo superava in altezza di circa venti centimetri.
«Ma su!» sghignazzò improvvisamente il nano «Non si può neanche scherzare!? Superficiali...»
Poi, come degna conclusione della giornata, sulla via del ritorno, incrociarono quella pattuglia di zombi che stava pestando la ragazzina.