mercoledì 30 agosto 2017

Scegliendo di camminare con la morte - Capitolo 1

La roccia era salda e sicura, ruvida e gigantesca. Il muschio le maculava qua e là il grigio manto e la lieve e carezzevole nebbiolina d'autunno la sfiorava delicatamente.
L'impetuoso torrente la rintronava, instancabile, con le proprie grida imperiose. Ma lei lo ignorava: non era tipa da prendersela facilmente!
E poi, il torrente sapeva anche essere gentile: quante volte, con uno spruzzo un po' più alto degli altri, le aveva donato, seppure con quel suo fare sgraziato e burbero, una di quelle fluide perline le più piccole delle quali formavano quella nebbia così comune in quella zona! Quelle fresche perline che si tingevano d'argento sul muschio, di grigio sulla roccia e che, meraviglia, al sole rifulgevano come germogli di stelle. Le piacevano davvero tanto.
I faggi, alti e slanciati, svettavano intorno a lei, dinamici e spensierati come il vento con cui solevano giocare, perennemente sul punto di travolgere, con gioioso slancio, i vecchi castagni e le antiche querce, piante le quali, invece, salde e massicce, riuscivano a mantenere un decoroso contegno.
Un grido, improvviso, stridette. Altri lo seguirono. Cornacchie, forse. O gazze. Si allontanavano sempre di più. Ritornava a distinguersi il soffuso sottofondo del vento.
Una foglia, screziata come la fiamma, planava lievemente verso le rocce presso il montano flutto. S'adagiò sulla pietra col suo caratteristico passo leggiadro. Poi, un nuovo soffio di zefiro. La fiamma vegetale si librò nuovamente fra le brume. Le rapide acque l'intercettarono. Immediatamente fu rapita fra le onde, prendendo a balenare intermittentemente tra i ghiacci argentei; ghiacci che, nelle rarissime giornate di sole, se osservati dalla corretta angolazione, si cangiavano immediatamente in sfavillanti frammenti di astri cristallini.
Hàrikhot avanzò, tenendosi nell'ombra, circospetto, più per abitudine e istinto, che a bella posta. Non faceva rumore. Era solo un ragazzo, ma aveva già imparato ad andare a caccia (ed era anche bravo, come non si vergognava di ammettere); aveva dunque pure acquisito il passo caratteristico della sua gente, veloce e silenzioso, grazie al quale evitava di far fuggire le prede al momento meno opportuno.
Raggiunta la roccia, la ispezionò per un attimo con lo sguardo. Era sempre la stessa (fatto non particolarmente sorprendente), proprio come se la ricordava.
Cominciò ad arrampicarsi. Adorava quella roccia. La adorava perché leale, leale come gli Alhaturkh (la sua gente): decine di volte l'aveva scalata e mai un appiglio gli si era sbriciolato fra le dita, mai al piede era mancato d'improvviso l'appoggio; mai essa lo aveva tradito. E anche quella volta, le dita si serravano su salde sporgenze.
_È come se mi desse la mano_ pensò (o, forse, mormorò) Hàrikhot.
Difatti, mai la roccia lo avrebbe lasciato: casomai, sarebbe stato lui, un giorno, per stanchezza, incuria, o per una qualsiasi altra causa, a perder la presa; la roccia non avrebbe mai allentato la propria per prima.
Giunse in cima senza problemi: la sua terra selvaggia (i Monti delle Nebbie) lo aveva temprato nel fisico e nello spirito, rendendo il primo saldo e possente (assolutamente eccezionale, se rapportato a quello dei coetanei allevati nella bambagia che abitavano regioni meno inospitali) e il secondo deciso e determinato.
In piedi sulla insidiosa superficie inclinata della sommità della roccia, Hàrikhot mosse qualche breve passo verso il ciglio. Non stava facendo altro che ripetere un rito a lui consueto ed al quale difficilmente avrebbe rinunciato. E poi, pensava, senza un po' di rischio, che sapore ha la vita? Anzi, la vita stessa è rischio.
Giunto con le punte degli stivali di pelle già non più a contatto con la roccia, Hàrikhot osservò.
Quante volte aveva visto il laghetto che il torrente formava da quella parte! Quante volte aveva scrutato attentamente le selve che lo circondavano, sia ricoperte di timide gemme verdi e nuove in primavera, sia scrollanti le fluenti chiome alle correnti estive, sia incendiate dai colori dell'autunno, sia rifulgenti per i freddi argenti invernali! Quante volte aveva esaminato con interesse le salde rocce plasmate dagli amorevoli flutti!
Eppure, ogni volta che guardava, scopriva diverse le parole del paesaggio. Il discorso che la conca mormorava ai suoi sensi non era mai monotono, mai lo stesso: c'era sempre qualcosa di nuovo da vedere, da udire, da provare, da scoprire.
Anche quella volta era così. Sorrise di gioia. Incomparabilmente bello. _Mi meraviglio che non lo abbiano scelto per dimora gli dei, questo posto, dopo averlo creato!_ si disse.
E aveva tutte le ragioni di esprimere tal giudizio: era felice come un dio, più o meno, quindi poteva immaginarsene le sensazioni e i pensieri! E forse ci abitavano davvero, gli dei.
Forse erano loro che, in quel momento, lo facevano sentire re. O un grande guerriero. Uno dei grandi guerrieri delle saghe e delle leggende.
La colossale cascata poco distante da lì divenne il soffio di un drago; di un potente drago. Gli alberi flessuosamente ondeggianti non erano che antichi spiriti gementi, minacciosi, nel loro sconsiderato odio verso il mondo e le forme di vita... Verso di lui, soprattutto, che era venuto per distruggerli. Ma egli non temeva: con la propria lancia in pugno, coi propri muscoli poderosi, col proprio coraggio senza eguali, aveva affrontato sfide ben peggiori...
Una goccia. Hàrikhot si sdraiò sulla roccia e sul muschio. Non era dotato (come anch'egli sapeva) di tutte le virtù appena fantasticate, ma certo non lo spaventava un po' d'acqua: tutti gli Alhaturkh erano perfettamente in grado di lavarsi nelle gelide acque montane senza risentirne (a patto di poter raggiungere, in capo a pochi minuti, un fuoco caldo e degli abiti asciutti)!
_Chissà perché cade la pioggia?_ si chiese Hàrikhot. E fantasticò nuovamente. Sognava di essere il Dio delle Acque Hwllashhùrkh, e di riversare sul mondo piogge torrenziali dalle bizzarre ali da pipistrello così celebrate e venerate nelle cantiche e nelle leggende... Indiscutibilmente, gli piaceva fantasticare. Ma, del resto, a tredici anni ci si poteva ben permettere di continuare ancora, per un poco, a sognare!
La pioggia tamburellava sulla sua pelle: i pochi brandelli di pelliccia sparsi qua e là che, presso la sua gente, si consideravano capi d'abbigliamento, lasciavano scoperta una porzione di corpo ben maggiore di quella che rivestivano. Tamburellava, s'acquietava un attimo e prendeva a scorrere sul suo corpo.
Hàrikhot abbassò lentamente le palpebre, per godere appieno del contatto con quelle dita fresche e delicate, capaci di accarezzare teneramente anche i fiori e l'erba dei prati.
Cominciò pure a cogliere, con l'udito, non solo il ticchettio della pioggia sulla pietra, ma anche il suo morbido bacio alle fronde degli alberi, il suo fluido fruscio nell'esplorare gli steli e le corolle.
Circondato dalle attenzioni di entità familiari, che lo avevano cresciuto al pari dei suoi genitori, si sentiva a casa.
Anzi, era a casa: per un Alhaturkh non esisteva un vero e proprio concetto di confine; come la sua famiglia era formata da chi gli era sempre stato vicino e si era preso cura di lui, così la sua terra era quella che ricordava, quella che gli era nota come il volto dei suoi cari, quella che lo aveva amato dalla nascita. E come gli amici (qui intesi nel senso di veri amici e non soltanto di meri conoscenti o compagni di solazzo) conosciuti in seguito venivano considerati (ed erano quindi effettivamente) "di famiglia", così anche tutti i territori che sapevano donare il proprio affetto venivano conglobati nel concetto di casa.
E considerarsi a casa era tutto per un Alhaturkh: la casa era la patria, il luogo ove l'uomo (ovvero "Alhaturkh", parola derivata da "Alhat", cioè "forza", "coraggio", "valore" e simili, unita da "ur" al suffisso personificante "kh") trionfava sempre, il posto dove gli dei erano in grado di esercitare il proprio potere salvifico.
La pioggia non aumentava di intensità. Rimaneva una qualsiasi pioggerellina. Del resto, nella regione nota come "Monti delle Nebbie", pur non essendo infrequenti le piogge, ben rari erano i violenti scrosci; per lo più, gli acquazzoni non duravano oltre le due ore.
Udendo, ad un certo momento, lievi passi regolari, Hàrikhot li ritenne prodotti senza ombra di dubbio da un Alhaturkh venuto a fare il bagno. Non si curò neppure di schiudere le palpebre, intento a godersi interamente il refrigerante contatto con i fluidi e amorevoli polpastrelli del cielo.
In breve, mentre le brume s'infittivano sempre più e la pioggia, con un certo disappunto da parte del giovinetto, cominciava a diminuire d'intensità, Hàrikhot udì il crepitare di un fuoco: il nuovo venuto doveva aver appena finito di approntarlo e, con ogni probabilità, stava ora dedicandosi a rimuovere i propri miseri abiti di dosso.
Il fanciullo non si preoccupò del silenzio che seguì: l'altro Alhaturkh doveva essere giunto sulle rocce in prossimità del fiumiciattolo; entro poco, infatti, il giovinetto lo udì farsi largo tra i flutti. Poi Hàrikhot non riuscì più a distinguere che il cupo rombo della colossale cascata poco distante; il nuovo arrivato doveva essersi diretto là, perché era il posto migliore per lavarsi presto e bene.
Venne anche a Hàrikhot voglia di un bagno. Ma non subito. Perché non godersi una simile pioggia? Meglio attendere un po'.
L'adolescente, quando udì il corpo del tuttora ignoto visitatore guadagnare nuovamente la litica sponda e gocciolare abbondantemente sulle rocce, nel dirigersi, senza dubbio, verso il fuoco in precedenza approntato, si diede la pena di volgere lentamente il capo e di socchiudere gli occhi, chiedendosi oziosamente chi fosse che era venuto a dedicarsi alle abluzioni in quel momento.
Hàrikhot riconobbe immediatamente la (pur comune) figura di Arthàgrhet. Non che l'adolescente fosse particolarmente amico di quell'Alhaturkh moro, asociale e dagli occhi verdi come... come un'alga pestata; semplicemente, all'interno dei piccoli villaggi della sua gente, chiunque avesse già compiuto anche solo pochi anni di età era ormai già perfettamente in grado di riconoscere qualsiasi altro abitante, anche i tipi più schivi e taciturni (come Arthàgrhet).
_Chissà cosa avrà mai,_ si chiedeva puntualmente Hàrikhot al vederlo, o quando (ben più di rado) gli capitava, per un qualsiasi motivo, di pensare a lui _per non riuscire mai a stare allegro!_
Difatti Arthàgrhet, da quando si era unito alla tribù di Hemkèkrhot, non era mai stato veramente felice: anche quando sorrideva non riusciva a cancellare un velo residuo di tristezza, il quale trapelava, in un modo o nell'altro, dai suoi lineamenti o dal suo portamento, come se, per qualche tenebroso ed oscuro motivo, il conforto di una reale soddisfazione fosse inesorabilmente precluso al misero Alhaturkh.
Hàrikhot smise di pensare a lui e continuò a godersi la pioggia. Stava immobile, a palpebre abbassate, i mori (e lunghi) capelli che aderivano, fradici, alla roccia, le mani abbandonate, col palmo rivolto alla pietra, il petto dal respiro lento e regolare, il volto fisso in un sorriso tanto lieve quanto lieto, il pensiero perso nell'ascolto delle antiche salmodie del vento. Questo gli sussurrava alle orecchie canti lontani, quasi inafferrabili; canti ormai dimenticati.
Si ricordò di quando, un giorno, tornando alla propria capanna (una semplice costruzione in legno, la tipica abitazione di una famiglia Alhaturkh), aveva confidato, eccitatissimo, ai genitori: _Sapete? Oggi, il vento mi ha parlato! Mentre soffiava, si sentiva, come mescolata o un po' in lontananza, una voce!_
Ricordò il loro sorriso, mentre il padre gli spiegava che il vento non era altro che la voce di Theènourkh, dio del Viaggio e della Predazione, il quale, tramite quello, esortava i propri fedeli all'azione migliore, o rivelava ad altri la propria gloria, o minacciava e si burlava dei nemici col proprio sibilante riso schernitore, che, si narrava, era anche in grado di confinare nell'Alhatrukurkhruk, l'orribile terra infernale ove tutto era liscio, piatto, monotono e nulla esisteva che non fosse tremore e pianto...
Ogni Alhaturkh diveniva presto passabile nel raccontare leggende (anche se soltanto i bardi vi eccellevano) e nel creare dunque atmosfere coinvolgenti, perché era a mezzo delle storie e delle saghe, che veniva trasmesso il sapere più profondo, l'essenza stessa della conoscenza, la verità; non c'è da stupirsi, quindi, del fatto che Hàrikhot, conquistato dalla narrazione, avesse imparato rapidissimamente ad ascoltare il vento! E anche se a molti bisbigli non riusciva a dare il minimo significato, altre folate celavano messaggi a lui comprensibili: lo spingevano talvolta alla attenzione, talvolta all'esplorazione, talvolta alla battaglia... talvolta anche ad alzarsi nel cuore della notte, periodo considerato dal suo popolo come foriero di sventura e, soprattutto, di inganni.
Di notte, solo gli adoratori dell'oscura dea Etheelalhatrukursaàsra, o i protetti dagli dei più volte chiamati, osavano lasciare la capanna! Tuttavia, qualche volta Hàrikhot aveva dato una sbirciatina all'esterno, socchiudendo appena la robusta porta di quercia... E mai come in quelle occasioni lo spesso legno gli era parso tanto fragile e precario!
Quasi evocato dalle sue meditazioni, spirò un nuovo alito di vento. Anche questo gli parlava. Gli stava facendo cavalcare lo spirito, anche se il suo corpo quiesceva. Era come una breve galoppata al confine tra realtà e sogno, nel corso della quale Hàrikhot si sentiva in comunione con le nubi e in lontano dialogo col lampo...
Non poteva sapere (non essendo esperto delle parentele fra dei, o fra i loro corsieri) che il lampo era fratello delle nubi, ma non trovò ugualmente nulla di strano nella propria mistica esperienza: stava soltanto ascoltando.
Poi, gli giunse alle nari l'aroma del legno bruciato, un profumo che preferiva ad ogni altro; probabilmente perché significava fuoco, quindi forza, coraggio... e gli ricordava le gesta degli eroi (per il semplice fatto che, tradizionalmente, si narravano intorno a un fuoco, dopo la cena, prima di coricarsi).
Il tenue alito si esaurì ed egli riprese a dedicare la propria attenzione alla pioggia. Essa continuava, infaticabile, il proprio gentile massaggio su ogni millimetro quadrato del suo corpo: Hàrikhot riusciva a distinguerlo anche in quelle parti del corpo coperte dagli "abiti", in quanto questi, ormai fradici, gli aderivano in maniera tale alla pelle, che quasi eran divenuti sue vive escrezioni!
Ad un Alhaturkh più maturo ed assennato, a quel punto, sarebbe immediatamente sovvenuta la necessità di cambiarsi d'abito assai a breve, onde evitare che il proprio pur vigoroso corpo venisse infine sopraftto dai rigori della stagione, ma Hàrikhot era perso nelle proprie sensazoni, momentaneamente sordo a quella voce del buon senso che tanto spesso riesce ad evitare guai... e a precludere quel reale divertimento che solo la sventatezza della gioventù sa regalare.
Quant'era dolce abbandonarsi a quel massaggio! Gli sembrava quasi che addirittura le sue nere chiome lo percepissero!
_Forse,_ meditava tra sé _queste carezze rallegrano anche la roccia!_
Che idea! Non ci aveva mai pensato, prima.
Non finiva mai di stupirlo, la sua casa! Hàrikhot la abitava dal momento in cui era nato (e in tredici anni se ne scoprono, di cose!), ma questa non aveva mai cessato di sorprenderlo. Non aveva mai cessato di farlo sentire bambino, in confronto a lei. Non aveva mai cessato, ogni giorno, di mostrargli qualcosa di nuovo, perché il suo rinnovarsi non stava, semplicemente, nel mutare aspetto, ma, soprattutto, nella capacità di Hàrikhot, al momento opportuno, di percepirla e di comprenderla in maniera più completa. La sua casa, non era, semplicemente, ogni giorno diversa; era, piuttosto, ogni giorno più interessante, perché più amica, più comprensibile... più familiare.
Rapito dal tenero massaggio, lentamente, a poco a poco, cominciò a rendersi conto che alle blandizie della pioggia s'erano aggiunte quelle, non meno soavi, delle nebbie, le quali, infittitesi, gli scivolavano sul corpo con la dolcezza con cui la serpe sfiora il terreno.
Immaginò che proprio così doveva essere il sospiro di un Drago delle Acque. Non che ne avesse mai visto uno (né, quindi, che ne avesse mai sperimentato il sospiro), ma le leggende più antiche parlavano dei draghi... in special modo di quelli delle Acque, di quelli delle Nevi e di quelli delle Rocce (delle razze di Drago, ovvero, che, anticamente, erano presenti sui Monti delle Nebbie).
Le leggende li descrivevano come boriosi, capaci di qualsiasi efferatezza per far riconoscere (e, spesso, pesare) la propria supremazia su chiunque, ma anche come, nei confronti di coloro che stimavano (e che non si ritenevano superiori a loro), pronti ai più alti atti di amicizia e, addirittura, di amore.
A Hàrikhot non sarebbe dispiaciuto incontrarne uno... no davvero! Ma tutti gli Alhaturkh del villaggio, oltre a considerarlo alquanto pericoloso, lo ritenevano quasi impossibile: tutti sapevano bene che i draghi erano quasi estinti! I Monti delle Nebbie avevano subito non pochi cambiamenti (anche se Hàrikhot lo ignorava), dall'epoca in cui proliferavano i terribili rettili volanti...
Il nuovo clima si era rivelato fatale per loro: troppo caldo per i Draghi delle Nevi, troppo umido per i Draghi delle Rocce... solo i Draghi delle Acque avevano potuto sopravvivere, ma gli Alhaturkh, in seguito all'estinzione delle altre razze di quei terribili leviatani, avevano potuto moltiplicarsi, organizzarsi... e sterminarli in una cruenta guerra.
In breve, solo i draghi più temibili erano riusciti a sopravvivere, ma non era certo più così facile incontrarli: era ben vivo, fra di loro, il ricordo della antica Guerra dei Roghi, ricordata con tal nome per la strategia che (come si narrava) aveva conferito agli umani la vittoria: gli Alhaturkh avevano costretto i draghi a combattere a terra oscurando i cieli con i fumi di falò enormi.
O così, almeno, assicuravano i bardi.
_Sì,_ concluse Hàrikhot, con un sospiro di desiderio _mi piacerebbe proprio incontrarne uno!_
Quando, comunque, i suoi occhi cessarono di fissare il vuoto (o, meglio, le sue fantasticherie), lo informarono dell'accresciuta luminosità ambientale, la quale non poteva significare che una cosa: stava avvicinandosi l'ora del pranzo; era pertanto meglio sbrigarsi a fare il bagno e ad incamminarsi verso il villaggio!
Hàrikhot si rialzò, dunque, lentamente in piedi. Sciolse un po' le articolazioni, senza trascurare di stiracchiarsi a piacimento; poi, con decisione e sicurezza, scattò in una repentina corsa verso uno sperone della pietra che si protendeva verso un gruppetto di faggi al limitare della vicina selva.
Giunto con l'ultima falcata ad una distanza dal limitare della roccia pari, circa, a un suo piede, si tuffò, con una rapida espirazione, verso il faggio più vicino, le braccia tese verso l'esile tronco, il corpo quasi parallelo rispetto al terreno, le chiome schiacciate al corpo dalla recente pioggia e dalla fitta nebbia.
Non era un'impresa difficile né inconsueta, per lui: difatti le sue mani si serrarono con sicurezza sul flessibile (e come è comprensibile, viscido) tronco del faggio, permettendo alle sue gambe di avvilupparvisi. La pianta si scosse con moti ampi e minacciosi, rovesciando, fra l'altro, sull'indesiderato ospite, una doccia di goccioline; ma Hàrikhot si tenne ben saldo, consapevole della resistenza dell'albero: non ricordava più nemmeno quante volte si era servito di tal comodo metodo di discesa, ma non in una sola occasione la pianta si era lasciata sfuggire un gemito, o, comunque, un qualsiasi mormorio di cedimento.
Anche quella volta fu così.
Nonappena l'esile fusto prese ad oscillare un po' meno vigorosamente, Hàrikhot cominciò agevolmente a scendere, servendosi delle basi dei rami come appigli e, quando questi mancavano, lasciandosi scivolare gradualmente, in maniera controllata.
Giunto a terra prima ancora che il dondolio della pianta fosse completamente cessato, Hàrikhot si guardò intorno circospetto.
Ancora una volta, la ragione non era che egli si sentisse realmente minacciato da qualche oscuro pericolo (diversamente, discendere con un siffatto trambusto non avrebbe costituito precisamente la linea d'azione più cauta e furtiva possibile...); Hàrikhot si comportava in tal modo unicamente per gioco e per abitudine.
Il giovinetto doveva anche aver teso le orecchie, a dire il vero, e, a farla breve, messo inconsciamente in stato di allerta tutti i sensi, mentre cominciava ad avviarsi verso la conca ove si tuffava il torrente con una spettacolare cascata, ma (ovviamente) non rilevò minaccia alcuna.
Sotto il tetto di fronde reso cupo ed indistinto dalle brume, l'involontaria e quasi innata cautela di Hàrikhot risultava particolarmente efficace.
A un eventuale osservatore che non fosse un Alhaturkh, egli sarebbe certo sembrato dotato di virtù magiche: un certo momento, era dietro un faggio, parzialmente nascosto dai suoi rami, l'attimo dopo, si trovava semicelato da un cespuglio, quello seguente, ibridato con una asperità del terreno.
Gli era facile nascondersi, svanire, teletrasportarsi (anche se allora, come ogni Alhaturkh, non conosceva il significato di tale termine), in quel mondo di grevi lingue di foschia, di scintille vegetali dai colori fiammanti, di coriacei esseri torti, tetri, minacciosi, di fluide gemme argentine sparse senza invidia né avarizia...
Era il suo mondo. La sua casa. E aveva appreso da tempo l'arte di scivolare fra le nebbie, di confondersi tra le foglie, di strisciare al riparo dei macigni... Così, in breve tempo e quasi senza alcun rumore, giunse in vista della conca.
Nonostante il fatto che le condizioni atmosferiche non concedessero certo una buona visibilità, Hàrikhot scorgeva perfettamente le scoscese pareti che delimitavano l'impetuosa e travolgente carica delle acque, quelle pareti così fiere, indomite, aspre, in alcuni punti addirittura taglienti, che fungevano da perfetta cornice ai selvaggi e irrequieti sbalzi delle onde; quelle pareti in cui, nel corso dei secoli, il tumultuoso rivo aveva eroso un levigato alveo.
Per gli occhi di Hàrikhot non vi era più, ormai, la necessità di vedere con chiarezza tale spettacolo: pur essendone ancora nascosta la maggior parte dalle fronde e dalle brume, la luce del ricordo oltrepassava qualsiasi barriera.
Eppure la conca cambiava... anche drasticamente, talvolta! Non era certo un fatto particolarmente raro, che uno sperone troppo esile di roccia precipitasse per gli erti scoscendimenti, abbattendone altri sul proprio cammino e facendoli rovinare nelle gelide profondità del minuscolo laghetto.
Ma il ricordo non tradiva mai Hàrikhot, sia che nella conca fossero precipitati massi, sia che la furia o il paziente sforzo delle onde li avessero già trascinati altrove, sia che ogni pinnacolo fosse ancora esattamente al proprio posto; difatti, il ricordo del giovinetto non consisteva nella banale memorizzazione dell'aspetto esteriore del luogo. Hàrikhot teneva a mente ben altro: l'impeto irresistibile del rifulgente fluire argenteo, la dignitosa tenacia della roccia dell'alveo (la quale, pur sconfitta, sottomessa, livellata e levigata, manteneva la propria invitta saldezza), la focosa baldanza degli aguzzi pinnacoli e delle affilate creste di pietra (che parevano quasi non limitare la propria muta ed immobile sfida al fluido rombante da loro poco discosto, ma quasi estenderla alle fitte nebbie, o agli astri sfavillanti, alle tempeste dagli sfolgorii intermittenti, o al sorriso imperturbabile della volta eterna del cielo).
Hàrikhot rimembrava il torcersi ed il districarsi del flusso imperioso. Rimembrava il bizzarro contrasto tra la superficie ondulata e la materia d'irriducibile solidità del liscio letto del torrente. Rimembrava il pietrificato (ma non per questo meno vitale e percettibile) slancio delle giovani rocce.
Il suo ricordo, insomma, fondamentalmente, non serbava scarne immagini, ma impressioni, esperienze: coglieva le qualità, non l'aspetto del luogo; quelle qualità responsabili dell'aspetto del luogo stesso. Hàrikhot non ricordava tanto un particolare pinnacolo, quindi, ma, piuttosto, la "spinta" pietrificata che l'aveva originato e che ne avrebbe generati altri; non un particolare flutto, ma la fluida e decisa irruenza che caratterizzava ciascuno di essi... E ogni volta che poteva nuovamente ammirare quelle forze all'opera, ogni volta che si ritrovava a scoprire a quante (e quanto meravigliose) realtà esse potevano dare origine, Hàrikhot si sentiva trafiggere il cuore dalla bellezza di quei luoghi.
La precisa lancia di tali amenità non mancò nemmeno allora il bersaglio. Trafitto, Hàrikhot stette, incantato.
La fitta nebbia conferiva al paesaggio un aspetto cupo e misterioso, ma il luogo non era abbruttito da ciò: le rocce assumevano tonalità più sfumate ed accennate, il filo sottile e tagliente dei giovani speroni e pinnacoli sembrava mimetizzarsi nell'atmosfera stessa, come una litica serpe pronta a colpire un'eventuale incauta preda. Ma, soprattutto, non veniva sminuita l'indomita beltà del selvaggio torrente: i flutti riflettevano l'argento vaporizzato delle nebbie per mutarlo in una danza di rapidi fulgori e captavano, intervallatamente, con improvvise e rabbiose impennate, le luminescenze che il giorno riusciva a far filtrare tra le fosche difese aeree elevate dal suolo, accendendosi di candide vampate che morivan l'istante dopo nell'omogenea mistura delle acque gelide ed impetuose e delle lievi spirali di foschia dal passo furtivo.
Fu l'amichevole tocco di una foglia secca che gli urtò il collo, a destare Hàrikhot dalla contemplazione.
_Devo proprio andare!_ constatò con un sospiro.
Ma non per questo rinunciò al bagno.
Non c'era tempo per ravvivare il fuoco che Arthàgrhet aveva lasciato morire, una volta asciugatosi ed allontanatosi da lì. Hàrikhot non volle perdere nemmeno il tempo per togliersi di dosso gli abiti fradici di pioggia: come avrebbero potuto, del resto, divenire più bagnati? Senza indugi, in pochi, lesti e lunghi passi, l'adolescente raggiunse le rocce ben levigate che delimitavano il bacino in cui si riversava il maestoso e colossale fiotto d'argentino fluido.
Hàrikhot cominciò a discendere, camminando, per un liscio lastrone di pietra che s'inabissava fino a raggiungere il fondo del laghetto. Era sempre una sensazione meravigliosa, avvertire l'acqua gelida inumidire e attraversare a poco a poco il vestiario che poteva raggiungere (anche perché, secondo la percezione Alhaturkh, quell'acqua non era affatto "gelida", bensì piacevolmente fredda, vitale, corroborante...); e procurava sempre un particolare piacere, sentirsi, piano piano, penetrare nel liquido: prima le salde gambe, poi la cintola, il busto...
Era fantastico, avvertire con la propria pelle tutte le insospettabili correnti del torrente, rendersi conto di come la propria presenza le modificava... Dava l'impressione di partecipare del ruscello stesso, di essere null'altro che un suo flutto di carne.
Immergendosi completamente, Hàrikhot si abbandonò.

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