mercoledì 30 agosto 2017

Trame d'incanto - Prologo

Città Morta
anno 314159 dalla fondazione di Hòvval,
giorno di Chymmér, 25 Sythebòt


Un controllo. Avrebbe dovuto trattarsi di un banale controllo.
Vhùgrhekk, compiaciuto dell'andamento generale di diverse macchinazioni che avrebbero dovuto consentirgli di guadagnare influenza presso il consiglio civico di Hòvval, si era concesso quella semplice verifica, a titolo di puro svago. Per non insospettire nessuno con la propria momentanea assenza, aveva lasciato una copia illusoria di sé nella propria torre, conferendole abbastanza intelligenza da ingannare eventuali sortilegi divinatori volti a spiarlo, o anche improbabili visitatori occasionali; poi si era teletrasportato nelle viscere dei vicini Monti delle Nebbie, nella Città Morta, quella elaborata trappola per anime naniche sulla quale contava per il più importante piano che egli avesse mai concepito.
Un piano di ricchezza. Di prestigio. Di potere.
Un piano che ora, angosciosamente, scopriva rovinato.
«Come è potuto succedere?» mormorò il phurg, con gli occhi (i quali, di solito, sfavillavano di compiaciuto potere sul suo corpo di energia magica violetta) spalancati per l'afflitto stupore.
La città, un tempo salda quanto qualunque altra urbe nanica, era devastata, con interi edifici o pezzi di mura che mancavano, come se una mano gigantesca li avesse staccati per scagliarli via. Ma, ciò che era peggio, non rimaneva traccia delle anime. La città in rovina era ormai del tutto deserta.
Per un momento, Vhùgrhekk ricordò con sconforto quanto tempo e quanta fatica aveva dovuto spendere per allestire e popolare la Città Morta. Quanti rischi, quanti patti, quante ricerche!
Tanto tempo addietro, negli ultimi anni della propria vita da essere umano, il progetto lo aveva preso a tal punto da condurlo ad odiare il sonno e a considerarlo un fastidioso impedimento nella realizzazione dei suoi scopi. Per quel progetto, aveva seriamente rischiato la propria esistenza: aveva trascurato in sempre maggior misura le proprie ricerche per scoprire il segreto dell'immortalità che la forma di phurg gli avrebbe garantito, tanto che Vhùgrhekk soltanto a malapena, ormai ridotto a un anziano mago in lotta contro il tempo, era riuscito a penetrare i misteri decisivi e a entrare con sollievo nel novero degli eletti non-morti.
Quanto aveva investito, rischiato e sacrificato, per il progetto! Eppure, non aveva mai dubitato che ne valesse la pena, considerata l'entità della contropartita. Tutte quelle anime di nani prigioniere, avrebbero dovuto sentire, a causa delle leggi cosmiche più vincolanti che Vhùgrhekk conosceva, l'impulso sempre più irrefrenabile di raggiungere la loro meta ultima, i Pozzi Atri, l'assai poco invidiabile oltretomba nanico.
Poco invidiabile davvero, perché lì disgustosi e voracissimi vermi si nutrivano in continuazione degli spiriti dei dannati, mangiandoli perennemente, pezzo per pezzo, senza che le anime, in quanto già defunte, potessero sperare che alla loro agonia ponesse fine la morte. Per giunta, tali dannati, essendo avidi nani, avrebbero sofferto quasi altrettanto per il tormento interiore aggiuntivo causato dai tesori.
I Pozzi Atri erano difatti colmi di ricchezze inimmaginabili, dai minerali più rari e più utili, alcuni sicuramente non ancora scoperti, alle gemme più pure, belle e raffinate, pietre un pugno delle quali avrebbe potuto comprare un regno. Ritrovarsi in mezzo a cotanta ricchezza senza potersene impadronire, sarebbe stato un supplizio crudele per qualsiasi nano; una tortura non meno spietata di quella di venire continuamente divorato un bocconcino alla volta.
Certo, restava sempre la speranza che arrivasse infine Baraùk, il supremo dio dei nani, alla testa degli Ultimi Minatori... ma non era l'escatologia nanica ciò che interessava a Vhùgrhekk. Il subdolo phurg aveva inteso accumulare anime su anime di nani, lasciando crescere a dismisura la loro tendenza a raggiungere i Pozzi Atri... per poi lasciarle libere tutte insieme, di colpo, come un'onda di piena, e unirsi magicamente a loro, magari con l'appoggio di un piccolo gruppo di demoni o non-morti, seguendole fino alla loro meta ultima.
Laggiù, considerando il caos che l'improvvisa invasione avrebbe dovuto ingenerare, Vhùgrhekk era stato certo che, per un incantatore del suo calibro, non avrebbe dovuto essere problematico resistere per qualche tempo a quell'ambiente così ostile, fare incetta di tesori, poi ritirarsi, ricco oltre ogni immaginazione.
Con tutto il denaro ricavato, avrebbe potuto soddisfare ogni proprio più piccolo capriccio per tutto il resto della propria esistenza di non-morto! Nulla gli sarebbe stato impossibile! Avrebbe potuto comprare i più oscuri segreti, accrescendo di molto le proprie già vaste conoscenze nel campo dell'occulto; avrebbe potuto corrompere ogni servitore o funzionario, inducendolo a tradire il suo signore o il suo stesso paese, determinando così il corso della storia delle nazioni; avrebbe potuto soddisfare le richieste dei più potenti arcidemoni e ottenerne in cambio i servigi, scatenandoli contro chiunque gli si fosse parato dinanzi...
E ora, invece...
«Chiunque sia stato, se ne pentirà!» si riscosse il phurg. Non era più un ordinario incantatore umano. Era da tempo riuscito a penetrare i segreti necessari a divenire un non-morto di pura magia, un phurg, per l'appunto. Ricostruire la Città Morta gli avrebbe richiesto molto meno tempo, grazie al più diretto contatto con la magia di cui godeva ora. Ripopolarla sarebbe risultato lento, ma ormai non doveva più preoccuparsi del rapido deterioramento di un corpo di sangue e carne. Inoltre, prima di tutto, con la propria schiacciante potenza, gli sarebbe stato agevole vendicarsi.
Per sedare il proprio odio bruciante, Vhùgrhekk ripensò brevemente agli ultimi nemici che aveva abbattuto. Quel menestrello dalla faccia stupida che aveva fatto ammalare. Quella mummia che credeva di potersi permettere di ostacolarlo. Quella coppia di potenze angeliche che aveva osato chiedergli conto delle sue azioni.
Il phurg ritrovò un timido sorriso: i suoi nemici, una volta abbattuti, finivano invariabilmente per suscitargli un senso come di affetto. Non vedeva l'ora di poter provare affetto anche per chi aveva osato oltraggiarlo a tal punto!

Un essere molto, molto lontano aveva percepito quei pensieri. Etheelalhatrukursaàsra, la principale dea del male conosciuta (e giustamente temuta) dai barbari dei Monti delle Nebbie, osservò con distratto compiacimento il mondo che le giaceva ai piedi, la sterminata e devastata distesa dell'Alhatrukurkhruk, la dimensione che ella si era scelta e conquistata all'alba dei tempi.
Come no? Povero Vhùgrhekk. Si credeva chissà quale potenza... quando invece non era che un phurg come tanti altri. Oh, certo, meglio essere un phurg come tanti altri, piuttosto che un mago come tanti altri, o un uomo come tanti altri, o uno scarafaggio come tanti altri... Ma, quando ci si ritrovava immischiati nelle questioni degli dei, essere phurg non costituiva questo eccezionale aiuto.
Vhùgrhekk non avrebbe mai scoperto che la sua preziosa città era stata fatta a pezzi nel corso di un recente scontro tra Hurekuretheelgùrak, il malvagio dio della furia e della caccia, e Zàxeras, la morte, la morte reificata, dea un tempo, nonché tutt'ora in possesso di una buona quota dei propri pristini poteri di nume. Nessuna delle due divinità coinvolte aveva interesse a divulgare tale notizia. Entrambi i poteri si sarebbero opposti. Così, le magiche indagini del phurg, solitamente potenti e affidabili, non avrebbero sortito miglior effetto degli incerti tentativi di un apprendista stregone.
Che peccato...
Etheelalhatrukursaàsra stava quasi per meditare se le fosse possibile sfruttare a proprio vantaggio la frustrazione del non-morto, ma rimandò. Zàxeras aveva la precedenza. Zàxeras, su cui anche lei aveva le proprie mire. Zàxeras, che credeva di sfuggirle abbandonando i Monti delle Nebbie per dirigersi a Hòvval, la città dalle Bianche Mura.
«Vieni!» parlò la dea. E un nume, quando parla, quando parla veramente, senza imporsi quelle restrizioni e quei vincoli che gli sono necessari se deve comunicare con esseri a lui inferiori, quando si rivolge al creato stesso per plasmarlo a proprio piacimento, allora dice, ma è come se facesse.
«Menzogna delle mie menzogne, illusione delle mie illusioni,» proseguì la dea, conscia dell'importante investimento che stava compiendo in termini di potere, ma altrettanto consapevole di star preparando la mossa che sarebbe stata decisiva «mia progenie sei tu, oggi ti ho generato».
E fu.
Quell'essere, prima non esisteva. Ora sì. Ed era come se fosse sempre esistito.
Una creatura che Etheelalhatrukursaàsra aveva generato come propria figlia, risalendo fino agli albori della creazione, attingendo in parte alla propria stessa sostanza. Un atto che nessun nume avrebbe compiuto alla leggera. Ma una creatura siffatta... oh, una creatura siffatta, di sicuro non avrebbe fallito la missione che la dea le stava per affidare.
A Hòvval.


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